Rinnovamento

Documento di P. Marchesi sul rinnovamento dell'Ordine per rispondere ai segni dei tempi

Fra PIERLUIGI MARCHESI OH

Fra PIERLUIGI MARCHESI OH

 

 

 

RINNOVAMENTO

 

 

 

CENTRO STAMPA FATEBENEFRATELLI

 

 

 

 

NOTA DELL’EDITORE

 

Al termine del primo sessennio di gover­no del Priore Generale dei Fatebenefratelli, fra Pierluigi Marchesi, la redazione del Cen­tro Stampa della Curia Generalizia ha voluto raccogliere in un’antologia le parti salienti dei suoi scritti e dei suoi discorsi, nell’in­terno di fissare i momenti più caratterizzanti del processo di rinnovamento avviato coeren­temente in tutto l’Ordine dal 1976 al 1982.

In questo periodo, infatti, l’Ordine ospe­daliero di San Giovanni di Dio è profondamente mutato, all’insegna del programma sintetizzabile nello slogan « rinnovarsi per umanizzare »: si sono riscoperte le radici della vocazione ospedaliera dei Fatebenefra­telli per adeguarne la testimonianza alle esi­genze emergenti via via dal confronto tra la Chiesa post-conciliare ed una società civile che è sempre più orientata ad assumere in proprio la responsabilità dell’assistenza so­ciale e sanitaria, ma che spesso ne dimentica aspetti fondamentali, quali il rispetto della soggettività dell’uomo che è l’utente di tali servizi e intere fasce di nuovi bisogni che non trovano risposta in modelli di assi­stenza strutturati in modo troppo rigido.

Si è trattato di un confronto spesso lace­rante, che ha messo e mette tuttora a dura prova la vocazione dei religiosi, proprio per la diversa concezione che dell’assistenza sa­nitaria hanno lo Stato e l’Ordine ospedaliero.

A tutta la complessa serie di problemi posti dalle nuove situazioni il padre Mar­chesi, con umiltà ma con altrettanta fer­mezza derivantegli dalla responsabilità del suo incarico, suggerisce risposte, lancia sti­moli capaci di indirizzare i religiosi ad una quotidiana verifica del loro impegno apo­stolico, nei duecento ospedali dell’Ordine, secondo il carisma sempre efficace del Fon­datore. Sono pagine di sofferta, partecipata meditazione che certamente non perdono di attualità, tanto più che lo stesso Priore Ge­nerale è stato recentemente confermato alla guida dei Fatebenefratelli dal Capitolo Ge­nerale: segno questo di convinta adesione alle sue proposte, nella speranza di dare nuovo vigore al rinnovamento, sia della vita religiosa che delle strutture ospedaliere ge­stite dall’Ordine.

 

Con questo intento abbiamo compilato questa antologia che ci auguriamo possa essere per tutti utile strumento di lavoro.

 

Roma 8 Marzo 1983

Festa di San Giovanni di Dio

 

PRESENTAZIONE

 

 

Confratelli carissimi,

come avevo promesso ai P.P. Provinciali nella riunione di Granada, vi trasmetto i documenti letti, in parte, in quell’incontro, sul tema del Rinnovamento.

 

La presente non vuole essere una nor­male lettera circolare ma un documento che serva di lettura, di meditazione e di guida per incontri comunitari, per ritiri mensili e per esercizi annuali. Per tanto vo­gliate generosamente non accusarmi di es­sere troppo prolisso. Questa pubblicazione vuole essere un fraterno servizio a tutti voi su un tema, quello del Rinnovamento, che ci deve impegnare tutti se amiamo la no­stra consacrazione a Dio e ai fratelli, se vo­gliamo che il nostro Ordine abbia ancora un suo ruolo apostolico nel mondo, rinnovando la sua gloriosa spiritualità, se vogliamo in­fine essere figli obbedienti della Chiesa che col suo Magistero ci indica, nello sforzo di un autentico Rinnovamento, la strada mae­stra per rispondere ai segni dei tempi.

 

I dibattiti, a cui ho potuto assistere o che ho provocato intorno a questo tema, mi hanno dato la morale certezza delle necessità profonde ed urgenti, che il nostro Ordine ha, di un vero Rinnovamento. Mi hanno altresì convinto che a questo proces­so ci si deve innanzitutto accostare con una seria e convinta preparazione cristiana e religiosa.

 

Questa pubblicazione, che desidero ar­rivi ad ogni singolo religioso e ad ogni Co­munità, vuole appunto essere un modesto, fraterno e meditato contributo alla pre­parazione personale e comunitaria per il Rinnovamento dell’Ordine.

 

A questi documenti va richiamata la mia lettera circolare del 19 novembre 1977, che parte integrante di una visione globale li questa preparazione.

E’ mio grande desiderio ed aspirazione proclamare il 1979 « l’anno del Rinnova­mento» per tutto l’Ordine, impegnando tut­te le energie dell’Ordine stesso e delle sue Province. Questo «anno del Rinnovamento» troverà i suoi momenti forti soprat­tutto nel ricorso a speciali preghiere, base e fondamento di ogni vero Rinnovamento e unica sicurezza di buona riuscita di ogni iniziativa; preghiere che programmerò per tutto l’Ordine e per le singole Province. Nello stesso anno, in collaborazione con i Padri Provinciali e le due Commissioni Internazionali, organizzeremo nelle singole Province e nelle Province della medesima area linguistica dei Corsi di Rinnovamento.

 

Questo « anno del Rinnovamento », in­fine, culminerà con la celebrazione del Ca­pitolo Generale Straordinario.

 

Durante quest’anno dovrà essere ricer­cata ogni occasione per sensibilizzare tutti i    Confratelli alle esigenze del processo di Rinnovamento.

 

Sarà opportuno dedicare all’argomento alcuni incontri di Comunità e riservare allo stesso scopo anche un po’ di tempo durante gli esercizi annuali ed i ritiri mensili.

 

Per quanto concerne il problema fonda­mentale del Rinnovamento, penso che il documento che trasmetto dia motivo di ri­flessione e di attuazione di programmi ope­rativi.

 

Per quanto riguarda i temi generali, trat­tati a Granada, i P.P. Provinciali avranno a cuore di comunicare ai religiosi le discus­sioni fatte e i risultati conseguiti.

 

Da parte mia, in proposito, voglio solo evidenziare, che, anche nel settore dell’esa­me periodico dei programmi operativi del­l’Ordine c’è molto lavoro da fare, perché mi pare di aver notato una certa imprepara­zione o immaturità in proposito. Manca a mio modesto ma sincero parere un auten­tico « sentire » come Ordine, anche se è am­mirevole ed edificante constatare amore per le Provincie e le Comunità di apparte­nenza. Ritengo poi che sia importante con­seguire capacità di dialogo e di verifica pe­riodica, poiché sono estremamente convinto che non si può più, dato il vorticoso evol­versi delle situazioni socio-ecclesiali, limi­tarci ad un incontro ogni sei anni (in sede condizionante perché anche elettiva) in oc­casione del Capitolo Generale per analizza­re e programmare la vita dell’Ordine.

 

Conseguentemente poi a quanto discus­so a Granada, la Curia Generalizia si impe­gna a darsi un’organizzazione più efficiente e più rispondente alle esigenze dei tempi, come è stato più volte ed in diverse sedi richiesto, pur mancando poi un coerente aiuto per raggiungere questo fine.

 

Affido al Signore la presente pubblica­zione sperando che riesca, come è appas­sionato desiderio di chi umilmente la pro­pone, a fare un po’ di bene a qualche Con­fratello e ad accendere in molti la luce ra­diosa della speranza cristiana.

 

Con fraterno affetto

 

 

 

fra Pierluigi Marchesi

Priore Generale

 

 

Roma

15 aprile 1978


 

Parte Prima

 

LE BARRIERE CHE CI DIVIDONO

 

 

« Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” Mt. 6:12

 

 

« Anche se i vostri peccati fossero come scarlatti, diventeranno bianchi come neve» Is. 1:18

 

 

 

 

Capitolo Primo

 

IL MALE, LA MALIZIA, IL PECCATO

 

 

Una sincera e profonda meditazione sul nostro Ordine, che ho quasi visitato per in­tero, mi convince sempre più della neces­sità di un autentico Rinnovamento.

 

Quando parlo di urgenza di Rinnovamen­to penso a due cose. La prima, ovviamente la più evidente, è la vita che viviamo in cia­scuna delle nostre Province e che ho speri­mentato «de visu». Dobbiamo riconoscere che nell’Ordine esiste una vita spirituale, una vita che, senza dubbio, continua nel tempo l’ideale di San Giovanni di Dio.

 

C’è vita e dinamica nell’unione fraterna che tanto abbiamo dibattuto negli ultimi Capitoli Provinciali.

 

Nei miei contatti con i Confratelli e le Comunità, però, ho notato altri fattori che si impongono alla mia riflessione e alle vo­stre. Tradirei la mia coscienza e le mie re­sponsabilità se non tenessi davanti agli oc­chi anche questi altri fattori.

 

La situazione, in generale, ci obbliga ad un incessante approfondimento della Parola di Dio, alla contemplazione della persona di Gesù Cristo, alla ricerca costante e pro­fonda del significato autentico della vita di San Giovanni di Dio. Anzi, ci impongono di riscoprire in maniera sempre più seria il significato e lo spirito delle Costituzioni e dei nostri Statuti Generali.

 

Abbiamo il dovere di scoprire la presenza dello Spirito Santo nella nostra stessa vita, e quella Nuova Legge che è scritta non su « tavole di pietra », ma nel profondo del nostro cuore[1] .

 

Quando dunque mi occupo, per mio prin­cipale dovere, dei nostri Confratelli e cen­tro la mia attenzione sui fattori sopraccen­nati, allora riesco a comprendere in pro­fondità le esigenze dello Spirito nei nostri confronti, di quello Spirito che ci parla at­traverso il Magistero della Chiesa e i Docu­menti del Concilio Vaticano II.

 

Non è esatto dire che siamo « morti »! Non è il passato come tale che va condan­nato. Esiste uno spazio sempre più vasto fra ciò che di fatto siamo oggi e ciò che, invece, potremmo essere! Mi pongo molto spesso questa domanda: dov’è mai quella « vita più abbondante’» [2]  che si trova nel cuore del Nuovo Testamento e nell’insegna­mento della Chiesa?

 

Leggendo le risposte ai questionari cui la maggior parte dei nostri Fratelli ha scelto di rispondere, ed esaminando le sintesi del­le varie Province, ho constatato, senza om­bra di dubbio, che non sono il solo nel­l’Ordine a ricercare questa « vita più ab­bondante ».

 

Come tutti sappiamo, se veramente sia­mo alla ricerca onesta dei veri valori, esi­stono in noi dei lati positivi, dei « punti forti », chiamiamoli pure così, che manten­gono vivo in noi il desiderio di scoprire Dio, di riesaminare in profondità le relazioni con il nostro Fondatore, con tutti gli altri confratelli e con i Fratelli che dobbiamo amare e servire.

 

Questa ricerca di una maggiore pienezza di vita e di una felicità che ci spetta di di­ritto (se riusciamo a scoprirla!) è in certo senso inerente alla nostra natura, come è inerente alla nostra natura evitare il male, la sensazione di vuoto, la sofferenza, l’iso­lamento! Questa «vita più abbondante », però, vita di amore e di unione fraterna che abbiamo l’obbligo di realizzare appunto per quella Nuova Legge incisa nei nostri cuori e in forza dei nostri voti, è al di sopra delle nostre forze! Però sono a nostra disposizio­ne dei doni soprannaturali che ci aiutano a rafforzare quegli impulsi naturali che sono in noi, che ci portano a ciò che è buono e alla felicità. Con questi doni, e con la buona volontà non dovrebbe essere troppo difficile osservare questa «Nuova Legge». « Il mio giogo è soave, il Mio peso è leg­gero » [3].

 

Tuttavia la nostra ricerca deve essere frutto di una profonda riflessione: perciò dobbiamo anche tentare di scoprire l’altra faccia della medaglia, i fattori che ci indeboliscono, le barriere che ci separano dal­la sorgente di questa « vita più abbon­dante ».

 

Ci renderemo conto del bisogno di rin­novarci se riusciremo a guardare in faccia spassionatamente le nostre debolezze.

 

Il Rinnovamento ha due aspetti fonda­mentali: innanzitutto esso cerca di elimi­nare le debolezze della nostra vita e di ab­battere le barriere che ostacolano la nostra comunione fraterna; in secondo luogo si sforza di scoprire anche quei nostri « punti forti » che possono facilitare il raggiungi­mento di una unione simile a quella tra il Padre e il Figlio.

 

La debolezza o il male (chiamiamolo con il suo vero nome!) che rimane nell’ombra, cioè che non vogliamo far venire a galla, può distruggerci.

 

In questo mio intervento intendo so­prattutto parlare di tale primo aspetto del Rinnovamento, cioè della nostra umana de­bolezza e del male che è in noi!

 

So benissimo che è un argomento pe­noso!

 

Oggi non è più di moda parlare di pec­cato, dunque a maggior ragione dobbiamo essere spietatamente sinceri con noi stessi e sostenerci a vicenda in questo nostro sforzo.

 

A nessuno piace « meditare » sul male o sul peccato. Eppure, nella misura in cui non viviamo quella « vita più abbondante» di cui parla il Vangelo, cioè la vita di amore, noi siamo peccatori! Nella misura in cui non mettiamo Gesù Cristo al centro della nostra comunione fraterna, noi commettia­mo il peccato.

 

Purtroppo la cultura moderna secolariz­zante si è infiltrata anche nelle nostre vite. Tale cultura non si preoccupa del Dio vi­vente e del Suo esistere al centro stesso dell’universo, anzi, essa è riuscita perfino a negare la realtà del peccato! Quindi, da un primo punto di vista, il nostro Rinnova­mento dovrebbe significare una maggiore e più profonda consapevolezza dello spirito che anima sia la cultura secolare di oggi (la nostra inclusa!) sia questa « vita più ab­bondante» [4].

 

Essere capaci di amare significa saper diventare la stessa cosa con l’altro. Allo stesso modo, la capacità di essere cattivi, di cedere al vizio e al potere del peccato, significa capacità di separare i Fratelli gli uni dagli altri. Il potere di unire e il po­tere di dividere si trovano nella nostra li­bera volontà: tutti e due hanno la mede­sima forza.

 

Vivere la vita interiore vuol dire cer­care una sempre maggiore pienezza di vita e di felicità.

 

Sentirsi soddisfatti dello « status quo », cioè fare a meno di questa maggiore pie­nezza di vita, vuoi dire essere cattivi, vuoi dire commettere peccato!

 

Quando ricerchiamo una felicità maggio­re, e ci sforziamo di realizzarci in questo campo, siamo «virtuosi », creiamo cioè la comunione da cui sgorga questa « vita più abbondante ».

 

Vivere senza nessun ideale, nell’ignavia, significa distruggere proprio quella comunio­ne che Dio ci ha comandato di cercare [5].

 

Per dirla in altre parole, il nostro potere di distruggere la nostra unione fraterna tro­va la sua sorgente nella nostra capacità di rispondere alla seduzione del Maligno [6].

 

Questo assecondare il maligno è debolezza. A motivo di questa debolezza noi capitolia­mo, rinchiudendoci in una cella di isola­mento, nella solitudine, tenendoci a distan­za gli uni dagli altri.

L’unità viene da Dio. La divisione dal demonio e anche dall’uomo, a misura della sua debolezza. La bontà è ciò che attrae i Fratelli verso i Fratelli. S. Tommaso d’Aqui­no dice che il peccato è «un’allontanarsi da Dio» [7].

 

E’ tragico notare come anche fra i mem­bri delle Comunità religiose oggi il senso del peccato si sia diluito a tal punto da essere quasi scomparso.

 

Da qui il monito dei pontefici ed in modo speciale di Paolo VI.

 

Le ragioni di tale realtà sono molte. Prima fra tutte è la cultura secolarizzante in cui viviamo, che ha certamente eserci­tato su di noi un’influenza molto maggiore di quella che noi abbiamo potuto esercitare su di essa. C’è poi il « clima » religioso della Chiesa stessa. Dal tempo della riforma si è dato molto più peso all’individuo che alla Comunità, al peccato attuale che ai vizi ca­pitali, al peccato come rottura della legge (legalismo) che come rifiuto di considerarsi o creati o redenti [8].

 

Esiste un’altra ragione: la casistica, cioè, la tendenza a razionalizzare, come sostituta di una riflessione autenticamente morale [9].

 

Quando accettiamo il raziocinio invece della coscienza, tendiamo a considerare « virtuose » cose che invece sono peccato vero e proprio, oppure a chiamare « ve­niale », ciò che invece è peccato grave! Anzi, a volte non lo chiamiamo neanche pec­cato!

 

Nel nostro mondo purtroppo, esiste una forma di casistica molto più seria. Essa at­tacca le radici stesse della nostra peccaminosità, giungendo perfino a negarne l’esi­stenza. Satana è riuscito a mascherarsi da angelo di luce [10] : è perfino giunto a farci dimenticare che esiste! E allora accade che l’uomo si inganni al punto da convincersi che tutto ciò che egli desidera è buono ap­punto perché lo desidera, che tutto ciò che esperimenta è giusto appunto perché egli lo sente!

 

Giunti a questo livello, anche «l’inno dell’Universo» [11]  non è più un potente coro che loda Dio in un’armonia e in una unità meravigliosa, ma un inno stonato e stridente in cui ciascun cantante fa « esat­tamente ciò che crede» [12].

 

Una cosa è dire che l’uomo è cattivo al centro del suo essere, che è interamente vi­ziato a causa del peccato originale (Calvino ha predicato questa dottrina e tutti ne co­nosciamo i risultati), e tutt’altra è afferma­re che l’uomo, al centro del suo vero essere, è vivo, è libero, e può usare questa sua li­bertà per opporsi alla Volontà stessa di Dio.

 

Mentre ci accingiamo a riflettere sul Rinnovamento della nostra vita religiosa, è importante studiare con attenzione le di­verse prospettive da cui possiamo guardare al male, per capirlo e dargli un significato. Nella tradizione della Chiesa ci sono due prospettive distinte da cui guardare al male. Esse hanno dato origine alla classica distin­zione fra i vizi che non sono capitali e i peccati che chiamiamo attuali. Ci sono quat­tro fattori da tenere presenti: il male, il vizio, la malizia, il peccato.

E ci sono due prospettive da cui guar­darli. La prima è la «raison d’être », cioè la « finalità ».

 

Ciò che è «ultimo » è frequentemente considerato come qualche cosa che avviene alla fine. Parliamo di «novissimi », di pie­nezza dell’essere, di totale realizzazione del­la figliolanza divina, di visione beatifica, co­me di cose che verranno «in ultimo ». In realtà, però, questo « ultimo », può anche essere considerato come « primo », come qualche cosa che si trova al centro delle cose, come ciò che noi scopriamo scavando in profondità, nei vari strati della nostra anima, per giungere, proprio attraverso que­sta anima, al Dio che vive in essa. S. Tom­maso d’Aquino ci dice « ciò che è primo nella intenzione è ultimo nell’esecuzione » [13].

 

Contemplando Dio che sta al centro del nostro essere vediamo quali sono le sue in­tenzioni su di noi, e quali intenzioni Egli ha per così dire costruito per e nella no­stra anima. Queste intenzioni divine non sono qualche cosa «in più », come uno strato di vernice su di un muro. Sono un qualche cosa che Dio ha voluto che fosse parte della nostra stessa natura. Anche se inconsapevoli, fin dal momento della nostra concezione, volevamo essere buoni nel senso pieno della parola, volevamo raggiungere la pienezza del nostro essere, volevamo toc­care la Bontà Divina, e trovare completa felicità e gioia.

 

Queste intenzioni sono per noi naturali come il nostro respiro.

 

Come una ghianda, anche se inconscia­mente, intende diventare un albero gigan­tesco, cioè una immensa quercia, così noi, al centro del nostro io, intendiamo realiz­zare una felicità perfetta. Dio però aveva su di noi intenzioni diverse da quelle sul resto dell’Universo. Per sua natura una ghianda deve divenire una quercia, così come tutto, per propria natura, è destinato a raggiungere la sua pienezza.

 

Ma Dio, nel caso di noi uomini, vuole che ciò avvenga liberamente.

 

Solamente l’uomo, in tutta la creazione, può scegliere di restare seme, di rimanere vuoto, di rifiutare di stendere la sua mano per toccare Dio.

 

Quando un individuo contempla la real­tà sullo sfondo della verità ultima, al cen­tro o al principio delle cose, il suo punto di partenza è quello di un ordine o di una intenzione che abbraccia l’Universo intero. Questo ordine equivale alla presenza di Dio nell’universo, e a Dio come Centro dell’uni­verso.

 

Non è sufficiente pensare a Dio come al fine di tutte le cose, collocato vagamente « là » in qualche posto, che riusciremo a «toccare» quando tutto il resto finirà di esi­stere. E neppure è sufficiente immaginare la nostra bontà, le nostre virtù, la nostra felicità in maniera simile. Significherebbe distorcere tutta la nostra vita e la nostra stessa natura. Dio è Alfa e Omega, princi­pio e fine: Egli si trova là dove due semi si incontrano per la prima volta e agli estremi confini dell’Universo dove i rami dell’albero della nostra vita toccano l’in­finito.

 

E allora, che cosa dobbiamo pensare del male in questo senso « ultimo »? Non è forse vero che il male è « assenza» di tutto? Che è resistenza all’ordine e all’intenzione che Dio ha posto nella nostra na­tura?

 

Se il bene e la felicità sono radicati nella nostra consapevolezza di Dio come Centro del nostro Universo, allora è giustificato affermare che il male esiste quando gli uomini mettono se stessi al posto di questo Centro.

 

Se l’uomo si nega ogni bisogno di un mondo che ha Dio al suo centro, quest’uomo tradisce se stesso e tradisce pure l’Universo di cui è parte [14] . Quando i religiosi si ri­fiutano di cercare Dio in ogni cosa, non è forse vero che essi si arrendono al male nel suo senso « ultimo », cioè più ampio?

 

Quando l’uomo sceglie se stesso, espe­rimenta il vuoto e il male: immediatamente si mette contro ogni possibile o concepibile realtà, in una parola, contro Dio.

 

Il  male preferisce la non-realtà dell’Universo, e la non-realtà della vita stessa. Limi­ta la realtà ad una piccola ed effimera por­zione di quella vita che un uomo chiama sua.

 

Attraverso il male si crea una indifferen­za enorme e inconcepibile per il «tutto» di cui un individuo è parte. Il male è esage­razione, distorsione grottesca, e auto-centri­smo. Una cosa è dire che l’uomo è il cen­tro dell’Universo e che Dio è il Centro del­l’uomo [15]; un’altra cosa è affermare che l’uomo, svuotato dei suoi veri valori, è al centro di tutto. Il paradosso di ciò che ab­biamo chiamato male «ultimo» è appunto questo: un uomo, svuotato del suo centro, che avanza delle pretese di diventare lui stesso centro [16].

 

Quando consideriamo il male come un mettere se stessi al centro di tutto, nono­stante la nostra grande povertà, allora ren­diamo il male sorgente di vizio e di malizia, oltre che di innumerevoli azioni peccami­nose e di tradimenti reali. Questo male può anche essere sorgente di attitudini apparen­temente « innocenti » e di pratiche che si mascherano di pietà. Come il male è l’op­posto del bene, e il male al centro dell’io è l’opposto del bene al centro dell’uomo, così il vizio è l’opposto della virtù, la ma­lizia l’opposto della bontà, e il peccato l’op­posto dell’obbedienza alla Volontà di Dio che è incisa in ogni essere umano. Non ci sarebbe male, se non ci fosse quella povertà che va a braccetto con l’individuo pieno di sé. Il male è appunto questa po­vertà, questa «vuotaggine». Se non ci fosse male in noi, non ci sarebbe vizio, appunto perché il vizio è quell’inclinazione e quella tendenza che abbiamo in noi di ri­manere « vuoti ». Ma scartato il vizio, viene a cadere anche la malizia, perché la malizia non è altro che quella attitudine che abbia­mo di dare precedenza alle cose meno buo­ne su quelle maggiormente buone, alle cose temporali ed effimere su quelle spirituali e durature, ai beni di questo mondo sui beni divini. Togliamo la malizia dai nostri cuori e sparisce anche il peccato, perché il peccato si verifica dentro di noi ed è sem­pre una scelta responsabile, basata sulla malizia ben conosciuta, di un bene minore a preferenza di un bene maggiore.

 

Chiunque osasse contestare il nostro si­tuare un io vuoto e sterile al centro del­l’Universo sarebbe bollato come traditore, anche se in realtà l’autentico tradimento dell’io consiste nel situare questo io al cen­tro di tutte le cose. E’ un paradosso, ma in pratica può diventare facile trovarsi a pro­prio agio con la povertà interiore, la ma­lizia, i vizi, i peccati che esistono dentro di noi.

 

Appunto perché queste cose esistono den­tro di noi, tendiamo ad identificarci con esse. Basta che qualcuno giudichi questa nostra povertà interiore come male, o il no­stro ripiegamento su noi stessi come pec­cato, e subito ci sentiamo minacciati.

 

Tendiamo ad adagiarci quando invece ci sentiamo chiamati ad essere più buoni, a vivere in maggiore comunione con gli al­tri, ad amarci reciprocamente di più, come Dio ci ha amati, a realizzare, o almeno a sforzarci di realizzare quella pienezza di felicità che, nella nostra vita, si raggiunge con fatica, gradualmente, ma che è il segno più autentico della verità del Vangelo!

 

Come ogni altro traditore Giuda cercò di assassinare il vero Centro dell’Universo, e di porre, come facciamo un po’ tutti, la povertà dell’assassino al centro delle cose.

 

Nessun «assassino» però può essere «centro» per la semplice ragione che un assassino è confinato in una prigione, in una cella di isolamento, o è condannato ad un tipo di morte in cui non esiste speranza di resurrezione.

 

Come traditore Giuda è stato alla ribalta della storia per duemila anni, ma come per­sona, come uomo è passato inosservato a tutti, tranne che a Cristo. Non fu mai cen­tro per nessuno, eccetto che per coloro che si identificano con lui, nello sforzo tanto folle quanto inutile, di svuotare l’Universo del suo centro autentico.

 

Ho detto sopra che il male può essere considerato da due punti di vista. Il primo è quello che abbiamo chiamato la «raison d’être», o il centro «ultimo» della realtà. Il secondo è quello che chiameremo « pe­nultimo », cioè periferico o di « superficie » della realtà.

 

Certamente dobbiamo considerare le cul­ture moderne, le tradizioni religiose cor­renti, le dottrine, i presenti codici legali, i regolamenti, come cose che cambiano senza sosta.

 

Il male avviene in determinate situazioni esistenziali. Prendiamo quindi l’avvio dal­l’ordine di cose stabilito dagli uomini, di cui l’uomo è centro. L’ordine creato dal­l’uomo tende alla rigidezza e alla finitez­za [17], ed è in profondo contrasto con quello creato da Dio, caratterizzato dalla spontaneità e dalla espansione. Rimanendo alla superficie delle cose, è male irrigidirsi in certe posizioni, perpetuare modi di vi­vere o di pensare che hanno fatto il loro tempo, mettere uno stile di vita al di sopra della vita stessa.

 

Dio è Padre e vuole che noi siamo Suoi figli, che diventiamo una cosa sola fra noi, come Egli e il Figlio Suo sono una cosa sola. Purtroppo questi figli di Dio preferi­scono vivere nel mondo di loro creazione, dove sono accettati come dei centri non autentici che però fanno comodo all’uomo e gli danno una certa pseudo-sicurezza a cui si è ormai abituato.

 

Un centro è qualche cosa che serve di «coesione», che tiene unite le cose che vi gravitano intorno. Il centro «ultimo» è quello che tiene unito l’Universo nella co­munione del Corpo di Cristo. Dal centro dovrebbe sgorgare la vita, così come dal­l’anima sgorga la vita per la persona uma­na. Il centro «ultimo» perciò è quello da cui deriva la pienezza della vita per tutti i membri del Corpo Mistico di Gesù.

Senza dubbio esiste una relazione reale fra superficie e centro, anche nella vita esi­stenziale: il male confonde queste due cose, e il peccato subentra quando si sceglie il bene minore che sta in periferia, e non quello più autentico che si trova al centro della realtà.

 

Quando i membri di una Congregazione religiosa confondono ciò che è marginale (periferico) nella vita consacrata con ciò che è essenziale (centrale), o quando si illu­dono che la comunione possa stabilirsi e crescere in relazione a cose esteriori, al­lora essi fanno «male» e forse commet­tono anche il peccato.

 

In una Comunità religiosa come questa, azioni, parole, attitudini, idee, stile di vita hanno precedenza sulla vita e sulla persona umana mentre il centro e la sorgente di ogni comunità è chiaramente Dio solo.

 

Quando l’apostolato viene visto come sor­gente di unità, molte volte si finisce col preferire il servizio apostolico al rapporto con Dio e con i Fratelli. Il servizio aposto­lico, invece è frutto, non causa, della no­stra unione con Dio e con i Fratelli. A volte capita che cose in se stesse « sacre » come una povertà austera, una severa ascetica, la fedeltà alle pratiche di pietà diventano il cuore della vita religiosa, si trasformano in centri non autentici, idoli che i religiosi adorano a scapito magari di un vero im­pegno di carità fraterna e di un autentico slancio verso Dio: di quegli slanci che sono stati l’origine stessa della fondazione delle nostre istituzioni religiose.

 

Non è facile scoprire Dio al centro della propria vita e di quella della Comunità!

 

Un religioso, se si è costruito falsi « cen­tri », esperimenta anche maggiore fatica nel disfarsi e nel purificarsi da ogni male.

 

Esiste un’area nella nostra vita religiosa dove le cose marginali, la «superficie» come l’abbiamo chiamata, cioè il «penultimo», cede il passo al centro autentico del nostro essere, cioè all’«ultimo». E’ l’area delle no­stre relazioni con la comunità e con gli al­tri religiosi.

 

Quando una persona è vuota dentro, non può offrire altro che esteriorità nella sua vita religiosa.

Ciò che appare sono le sue azioni, non la sua anima.

 

Tutt’al più, parlando umanamente, un tale uomo potrà trovare soddisfazione nel­l’approvazione degli altri per un lavoro ben fatto. Però questa approvazione umana è, nella migliore delle ipotesi, un bene effi­mero, ed esiste il pericolo che questa per­sona non ne sia mai sazia.

 

Quando una Comunità non può offrire ai suoi membri altro che l’approvazione, rischiamo di gettarci in una attività frene­tica. Ci esauriamo, bruciamo le tappe e spesso cadiamo in una passività priva di ogni speranza!

 

Quando manca la «ricompensa», creia­mo dei surrogati per le realtà più profonde della nostra vita affettiva.

 

I membri della Comunità diventano al­lora tante navi che, in un giorno di fitta nebbia, si sorpassano senza nemmeno ve­dersi. Nessuno osa porre all’altro una do­manda impegnativa, perché nessuno ha im­parato a dare una risposta autenticamente personale.

 

Nella misura in cui l’altro si rifiuta di corteggiare il mio io, un io vuoto e sterile, quest’altro è messo sotto giudizio. In realtà, ciò che esigiamo è che l’altro corteggi il nostro io. Nel senso «penultimo» del ter­mine, il peccato non è altro che l’incontro di un io vuoto e sterile con un altro io al­trettanto vuoto e sterile.

 

Abbiamo dato importanza alle cose mar­ginali: così facendo abbiamo superficializ­zato il peccato, e con esso la creazione e la redenzione.

 

Prendiamo ad esempio la carità, la più profonda di tutte le virtù, e la sorgente di tutta la vita: essa è in opposizione diretta al male radicale. Così come stanno le cose in molte Comunità oggi, i Religiosi sono più consapevoli della loro mancanza di ca­rità.

 

Senza dubbio i nostri « peccati » possono essere mostruosi, ma non devono limitarsi al contesto che abbiamo chiamato «penul­timo». La loro mostruosità consiste ap­punto nella violazione del centro «ultimo» della persona umana, sia che si tratti di noi che degli altri. La vera malizia di questo tipo di peccato non consiste tanto nel ne­gare la centralità del mio io o dell’io degli altri, ma nel negare la centralità di Dio in tutti e due.

 

Giuda tentò di privare tutti gli uomini di Cristo.

Mandandolo a morte, però, uccise anche il peccato.

 

Quando uccise il Figlio di Dio, il male perse il suo potere di distruggere la cen­tralità di Dio. Nella Resurrezione Gesù divenne il centro unificatore di tutti noi, e ci « attirò tutti a se » [18].

 

Questa è la potenza di Dio: tutto il re­sto è debolezza!

 

Rendersi deboli di fronte alla potenza di Dio per scampare alla morte è debolezza. E questa debolezza si rivela chiaramente quando scegliamo l’isolamento e la solitu­dine, cioè la vita meno abbondante». Vi­vacchiare così in superficie può anche, al­l’apparenza, dare l’impressione di discrezio­ne: si tratta in realtà di povertà e di debo­lezza che non regge al paragone di una vita vissuta in unione con il centro di ogni cosa. Se viviamo questa unione con Dio, che è bontà infinita, ci attira a quella comunione che riflette quella del Padre con il Figlio.

 

Spero, cari Confratelli, che rifletteremo a fondo sul male che si trova dentro di noi. E’ nel contesto della povertà interiore e della malizia che siamo chiamati alla pie­nezza di vita e all’abbondanza della figlio­lanza di Dio. Anzi, direi che è proprio per questo!

 

Dio solo può riunire tutti i suoi figli in una sola famiglia.

 

Illuderci che il male non esista in noi, che non siamo inclini a commetterlo, signi­ficherebbe non ammettere di essere figli di Dio. Infatti, Dio viene attirato a noi ap­punto perché ha scoperto in noi questa nostra capacità di male, di vizio e di pec­cato. Eppure, prima di redimerci da questo stato, Dio ci vide « buoni ». Sembrerebbe un paradosso affermare che la redenzione ci venne perché eravamo « buoni » e per­ché eravamo « cattivi ».

Negare l’una o l’altra realtà costituireb­be in se stesso un vero e proprio peccato.

 

Cari Confratelli, Figli di San Giovanni di Dio, il male esiste in noi: questo male ci porta a preoccuparci di cose marginali, del­la «superficie» della realtà, facendoci di­menticare l’essenziale, cioè il « centro ». Non fa differenza che ciò che ci assilla sia la «superficie» della Chiesa, o dell’Ordine, o della nostra Provincia, o dei nostri Con­fratelli. Ciò è male perché, facendo così, preferiamo un bene minore ad un bene mag­giore, ciò che è in superficie a ciò che si trova in profondità. Fermandoci qui non raggiungeremo mai la pienezza del nostro essere, la totalità della bontà e della feli­cità che Dio ha preparato per noi [19].

 

Stiamo però in guardia dal considerare questo bene «in profondità» in maniera troppo astratta. Per ovviare a questo incon­veniente, vorrei parlarvi un po’ in dettaglio dei sette vizi capitali, che sono compagni di viaggio di questo male. Essi sono la sor­gente, il «capo» (questo significa «caput », in latino, da cui viene « capitale ») di tutti i nostri peccati. La nostra impotenza di fronte a Dio la sperimentiamo in concreto appunto in questa nostra multipla capacità di distruggere quella unità nell’Universo che Dio desidera stabilire. Se però noi siamo deboli e impotenti, Dio Padre ci ha dato la possibilità di partecipare con Lui alla creazione di questa comunione.

 

Vizi capitali, cioè la base, vizi princi­pali, cioè radicali: sono lo sforzo ripetuto dell’uomo di distruggere l’ordine dell’uni­verso che trova in Dio il suo centro. La morte di Cristo e la Sua Resurrezione ci hanno, per così dire, svuotati del potere di metterci al centro delle cose per soddisfare le nostre esigenze egoiste. Come possiamo quindi, oggi, spodestare Dio per metterci al suo posto? Quale potere abbiamo a no­stra disposizione? Come e dove riusciremo a farlo? Con chi lo faremo?


Capitolo Secondo

 

IL VIZIO DELLA SUPERBIA

 

L’orgoglio, mettendo l’Io al di sopra di tutto, incluso Dio, sta alla radice di ogni vizio e peccato. Può essere che nel mondo eccessivamente secolarizzato in cui viviamo, un mondo svuotato di Dio e impastato di materialismo, l’orgoglio assumerà un signi­ficato diverso? Come si spiega che l’orgoglio riesce a dividerci gli uni dagli altri? E’ mai possibile che un vizio che si situa in profondità nel nostro subconscio possa diventare parte della consapevolezza dell’io?

 

L’orgoglio che ci schiaccia è di due spe­cie: personale e comunitario.

1) Orgoglio personale: l’orgoglioso non ha nessun senso del valore ultimo dell’io nell’Universo il cui centro è Dio.

Di conseguenza, non riesce a centrare né su questo Dio né sul fratello di cui Dio è centro. Di fatto, nella profondità della sua anima, non sperimenta alcuna esigenza né di Dio né del fratello. Non è neppure ca­pace di rispondere all’urgenza di intimità che pure esiste nel cuore del fratello!

 

L’orgoglioso non sa riconoscersi come « parte » dell’universo, perché la sua pas­sione lo rende centro della realtà, non par­tecipe della stessa! Una volta negato il suo essere creatura di Dio, egli rifiuta di am­mettere che esiste un valore in questo es­sere creatura di Dio, e che valga la pena di esserlo. E’ paradossale come l’orgoglioso proclami la centralità proprio rigettando il valore della creazione, come possa lodarne il significato proprio accettando un’assur­dità, ed esaltare l’unione proprio provocan­do una divisione.

 

Con l’orgoglio l’uomo si situa al di so­pra o al di fuori della volontà di Dio. Il desiderio del Padre è che noi viviamo la nostra vita intima attraverso lo Spirito, che la Sua legge di amore e di comunione sia scritta nei nostri cuori. La Sua volontà è che raggiungiamo un livello di perfezione al di là di ogni immaginazione [20] , supe­riore perfino a quella degli Angeli [21].

 

Dio vuole che diventiamo Suoi figli, e per renderci tali, cioè pienamente felici an­che nel senso umano del termine, Egli è pronto a tutto. Ci facilita il cammino, e quando delle difficoltà emergono, è pronto con la Sua forza e con grazie speciali che ci aiutano a superarle. La Vecchia Legge era dura, certo, tanto da provocare il pec­cato [22] ma non è così per la Nuova Legge. Gesù ci ha detto: «Il mio giogo è soave, il mio peso è leggero » [23].

 

Per rigettare Dio che si trova nel centro del suo essere, l’uomo deve veramente es­sere motivato da un vizio fondamentale e da un peccato che lo rode in profondità. Come può un uomo preferire il bene limi­tato che esiste nel suo io umano, impastato di povertà, al bene infinitamente superiore che gli deriva dal suo essere una stessa cosa con Dio? E’ assurdo solo immaginarlo! Solo un essere radicalmente corrotto può ingan­narsi a tal punto da considerarsi sorgente di doni superiori a quelli che gli derivano da Dio. Solo un essere cieco, ostinatamente rifiutandosi di ammettere che tutto è dono di Dio, può pensare di essere capace di tanto. Ma per giungere a tal punto, l’uomo deve essere prima schiavo di una passione terribile: l’orgoglio!

 

Una volta rigettato Dio e negata la Sua volontà di felicità piena per l’uomo, la via è libera per qualsiasi abuso. Quando l’Io e la sua centralità diventano il principio che guida la nostra vita, il nostro assenso alla Volontà di Dio non può ridursi altro che a parole. E da questa sorgente può scatenarsi ogni tipo di vizio e di peccato.

 

Una volta rigettato il principio che la grandezza consiste nell’essere figli Dio, e negato «il modo più eccellen­te» [24], è logico che ci affanniamo a sosti­tuire questo valore fondamentale con altre misure di grandezza e di eccellenza (cioè nostro io). Ma è pure logico che scateniamo un’infinita varietà di mali, che dimi­nuiscono l’uomo svuotandolo, rendendolo assurdo e degno di pietà. In ultima analisi, il superbo non può fare altro che generare il male. Distrugge tutto ciò su cui mette le mani. Nella sua arroganza disprezza il fratello, non riesce ad ammettere di aver sbagliato, rigetta ogni responsabilità per il male che fa. La sua libertà degenera in li­cenza, la sua « umanità» in ostinazione. E’ tanto incallito nel suo peccato che ogni sua azione implica disprezzo di Dio. E molto spesso tutte queste cose egli le compie rite­nendosi « illuminato », e a fin di bene! Ca­pita di frequente che questa persona sia un religioso osservante di tutte le Regole e di tutte le Leggi di Dio, « ad litteram », ma dimentichi « l’unum necessarium» che sta scritto nel suo cuore.

 

Come vostro Generale sono stato obbli­gato a pormi questi problemi. Mi sono spes­so domandato se mi considero, o meno, il Centro del nostro Ordine, quel «quid» che lo tiene unito, quella persona che, nel cuore dell’Ordine, ha ricevuto il mandato di rap­presentare il Cristo. Spero che ogni Pro­vinciale e ogni Superiore Locale sia pronto a porsi la stessa domanda. Tocca spesso ai Superiori prendere le decisioni finali. Ciò però non giustifica in nessuna maniera il cedere alla tentazione di considerarsi come la « realtà ultima ». Tanti dei nostri Fratelli considerano il Superiore come Centro del­l’Universo, e ciò nutre l’orgoglio di tutte e due. Se ciò accade, è dovere del Superiore chiarire sia a se stesso che al Confratello, che un conto è possedere l’autorità ammini­strativa e un altro è considerarsi essere di­vini. Sono i tiranni a possedere potere asso­luto e a credersi, almeno nel subconscio, degli esseri assoluti. Facendo così, però, tradiscono sia Dio che il loro prossimo.

 

Penso che questa sia la ragione per cui Gesù affermò che coloro che esercitano la autorità devono imparare a servire [25]. Penso pure che questa sia la ragione per cui Nostro Signore, che di fatto è il Centro dell’Universo, sia divenuto servo di tutti noi [26], e infine penso anche che questa sia la ragione per cui Gesù lavò i piedi de­gli Apostoli. Lavò anche quelli di Giuda il quale, di fatto, non riuscì mai a distruggere l’amore e il rispetto di Cristo per lui [27].

 

Di fronte all’amore di Gesù Cristo l’or­goglio è debolezza.

 

Ho già accennato al fatto che il male provoca divisioni.

Con l’orgoglio tradiamo i fratelli come Giuda tradì il suo Fratello, il Figlio di Dio.

Quando un Generale o un Provinciale prestano orecchio a chi si lamenta di certe debolezze che si notano in superficie nei Fratelli, e decidono in conseguenza di tali lamenti, non è forse vero che, col loro ope­rato, essi contribuiscono a seminare divi­sione nella Comunità? E che agiscono per orgoglio?

 

Perché invece non aiutare il Fratello che si lamenta a scoprire la bontà interiore che certamente si trova nell’altro, e a vedere in lui la presenza del Cristo? Nostro Signore tende a vedere soprattutto ciò che è buono e bello nell’altro, mentre passa sopra a ciò che può essere spiacevole o ripugnante in superficie.

 

Chiedo troppo se invito i Provinciali e i Superiori locali ad esigere che questi lamenti si facciano alla presenza delle per­sone interessate? Quando un Fratello parla male di un altro, non è forse vero che, così facendo, ne diminuisce la stima, ed esalta se stesso? E che cosa è ciò se non superbia? Quando i Superiori si prestano a certe cose, diventano partecipi dello stesso vizio.

 

Un Fratello che, per orgoglio, abbassa un altro Fratello gli sottrae un valore che gli appartiene di pieno diritto: il suo buon nome. Derubare un Fratello dell’onore che gli è dovuto, della buona reputazione che gli spetta non è forse molto più grave che derubarlo di beni esteriori?

 

Se i Superiori partecipano a questo «fur­to», sono tenuti alla restituzione se voglio­no che il loro peccato venga perdonato.

 

Capita spesso che queste « calunnie e denigrazioni» finiscano su un resoconto scritto: queste cose sono una vera e pro­pria rapina e una diminuzione dell’altro.

 

In ogni Comunità religiosa i Superiori devono ogni giorno prendere delle decisioni di carattere amministrativo. Lo stesso di­casi del Generale dell’Ordine.

 

Esiste il pericolo che il nostro lavoro amministrativo, o direzionale diventi una vera e propria evasione dall’< unum ne­cessarium»[28] , cioè dal nostro dovere di portare i Fratelli a quell’amore reciproco che riflette l’amore del Padre e del Figlio. Sotto questa nostra eccessiva preoccupa­zione amministrativa può anche nasconder­si un certo orgoglio, specifico di noi Su­periori!

 

Potremo dire in tutta onestà che io come Generale, e voi come Provinciali o Priori, siamo veramente persone desiderose di di­ventare autentici leaders cristiani? E se vo­gliamo essere leaders invece che ammini­stratori, sappiamo con chiarezza dove in­tendiamo guidare i nostri Fratelli? In pa­role povere, ho io, come vostro Generale, avete voi come Provinciali e Superiori Lo­cali, messo il molo di leader alla base del molo di autorità? Interroghiamoci: se la maggior parte del nostro tempo la passia­mo distratti da una grande quantità di af­fari, non potrà forse Gesù rivolgerci quelle stesse parole che disse a Marta: « Marta Marta, ti affanni troppo! Una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta »? [29].

 

Quali sono dunque le cose di cui noi Superiori e i nostri Confratelli si preoccu­pano e in cui si scopre prova evidente e dolorosa di orgoglio? Ci preoccupiamo di affari giuridici, siamo più interessati alla lettera che allo spirito delle cose. Sciupia­mo ore ed ore discutendo le strutture giu­ridiche della Comunità e degli stessi nostri voti. Siamo preoccupati dell’obbedienza esterna ai nostri Direttori Provinciali, an­che se Gesù ci ha dato un altro comando: « Perciò vi dico: per la vostra vita non af­fannatevi di quello che mangerete o ber­rete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete: la vita non vale forse di più del cibo, e il corpo più del vestito »? [30].

 

Se ci affanniamo dietro queste cose mo­striamo ai nostri Fratelli di essere noi al centro delle cose, che sta a noi provvedere ad esse, invece che al Padre, la cui cura per loro è molto maggiore della nostra.

 

Confratelli carissimi, forse quando sono stato eletto vostro Generale non fu in vista dell’amore cristiano. Chi mi ha dato il voto perché mi amava? E se l’amore non fu il motivo della nostra elezione è molto impro­babile che coloro che ci hanno scelto si attendessero che noi guidassimo i Fratelli all’amore reciproco. Quale maschera abbia­mo indossato, quale frode perpetrata se, eleggendoci, i nostri Fratelli non lo fecero perché convinti che avremmo fatto l’«unum necessarium », ma forse proprio al contra­rio, perché convinti che non l’avremmo fatto? Può un buon Superiore Maggiore, il cui impegno deve essere quello di portare i Fratelli all’unione con il Centro dell’Universo, può un buon Superiore Maggiore, lo ripeto, continuare a portare la maschera e perpetrare quella frode che la nostra Chiesa, nel Decreto « Perfectae Caritatis » ha chiesto di mettere da parte una volta per sempre? L’umiltà è verità. Gli umili non portano maschere per nascondere sia il bene che il male.

 

Carissimi Confratelli, tutti noi siamo occupatissimi, in innumerevoli dettagli di am­ministrazione e di direzione, tuttavia vorrei attirare la vostra attenzione su un’altra preoccupazione, un’altra ansia. Sono con­vinto che tutti noi, Superiori e Fratelli, sia­mo troppo occupati, anzi preoccupati, circa i Fratelli « problematici » che ci stanno in­torno. Ma forse, in fondo in fondo, è l’or­goglio che ci spinge a dedicare tanto tempo a questi individui e così poco tempo ai Fratelli « buoni » per guidarli ad una mag­giore comunione con ciascun membro della Comunità!

 

Non può darsi il caso che una delle « maschere » dei Superiori Maggiori sia ap­punto questa convinzione di avere in mano le chiavi per risolvere tutti i problemi? Il vero compito nostro, come Superiori Mag­giori, è un altro: aiutare i nostri Confratelli a raggiungere l’unione con Dio, col Fondatore e con ciascun membro della Comu­nità. E’ vero, in ogni Casa ci sono problemi, ma dobbiamo essere convinti che non ab­biamo né la capacità né la vocazione di ri­solverli tutti. I leaders veramente maturi, responsabili e preparati fanno uso di esper­ti esterni, perché abbastanza umili da am­mettere i loro limiti. Ciò che Gesù disse della pecorella smarrita è senza dubbio vero. Certamente è cristiano « abbandonare le novantanove nell’ovile per andare in cerca dell’una perduta, fino a che la si ritrovi [31]. Ma la pecorella smarrita e il Figliol Prodigo (di cui si parla nello stesso capi­tolo) non sono tanto gli individui proble­matici, quanto i nostri Fratelli che abbiso­gnano di pentimento e di riconciliazione. Le novantanove vivono veramente in comunio­ne le une con le altre. Quella perduta è il Fratello che non ha mai esperimentato la unione in seno alla Comunità.

 

Ma, direte voi, è proprio vero che il no­vantanove per cento vive una vita di pro­fonda comunione? O magari solo il cinquan­ta per cento? O forse appena il due per cento? Non esponiamoci a peccare di orgo­glio paragonando i Fratelli « problematici» alla pecorella smarrita! Non esponiamoci a delusioni convincendoci magari di essere il «buon pastore» che passa tutto il suo preoccupandosi di questi «problemi ­magari trascurando l’unica cosa che veramente conta [32].

 

Ogni volta che ci esaltiamo al di sopra quello che siamo in realtà, per volgerci a beni minori (cioè a noi stessi, allonta­nandoci da Dio) ci creiamo un vuoto e in­nalziamo il nostro io, povero e superfi­ciale, al di sopra di Dio stesso.

 

Chi conosce la via cristiana alla perfe­zione sa benissimo che ogni individuo e ogni Comunità deve passare attraverso il duro sentiero del Rinnovamento.

 

San Giovanni della Croce parla di que­ste tre tappe come di Via Purgativa, Illumi­nativa e Unitiva. Secondo San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila l’anima umana non ha bisogno di completare una tappa prima di passare all’altra. Oggi, però, Fratelli miei, iniziamo il nostro processo di Rinnovamento.

 

Se non siamo disponibili a guardare in faccia al nostro orgoglio e ad ammettere il potere tremendo che un tale vizio ha su di noi e su gli altri, e a purificarcene, non faremo mai un vero cammino sul sentiero del Rinnovamento.

 

Vi supplico di non lasciarvi spaventare da questa purificazione.

L’orgoglio è uno dei vizi più pericolosi perché ci allontana dalla sorgente di ogni bontà e di ogni felicità.

Dedichiamoci interamente all’unione e la nostra gioia strariperà [33].

 

2) Orgoglio Comunitario: Fratelli cari, quelli di noi che tendono a preoccuparsi di se stessi e dell’impressione che possono fa­re sui loro Fratelli troveranno molto diffi­cile riflettere sui due problemi a cui ho già accennato sopra: il problema del male e della malizia che sta al centro del nostro essere, e il problema dell’orgoglio nella sua dimensione personale.

 

Allo stesso modo, quelli di noi che si preoccupano per l’Ordine e per l’idea che il mondo può farsi dello stesso, troveranno difficile riflettere sull’altra dimensione del­l’orgoglio, quella comunitaria.

E’ naturale che ciascuno di noi si senta in un certo senso orgoglioso di appartenere all’Ordine!

E’ bene anche essere orgogliosi dell’Or­dine.

Da parte mia sono certamente orgoglioso di appartenere all’Ordine fondato da San Giovanni di Dio, e lo considero un tesoro di immenso valore nella Chiesa [34].

 

Esiste però una differenza di fondo fra questo tipo di orgoglio e quell’altro che, in un certo senso, pone l’Ordine al centro di tutto.

 

Come nel caso dell’orgoglio personale, anche in quello dell’orgoglio di corpo, il vizio risiede nell’intimo del nostro essere, in ciò che Freud chiamerebbe «subconscio ». Il nostro compito è ora di riflettere su questo subconscio, su quest’anima « collettiva ». Così facendo portiamo a galla, cioè a livello di conscio, ciò di cui non siamo consapevoli.

 

Penso che il miglior modo di procedere sia di sollevare dei problemi, quegli stessi che mi vengono in mente mentre rifletto sull’Ordine nel contesto del vizio capitale dell’orgoglio. So benissimo che è un com­pito tutt’altro che piacevole, e sono certo che anche voi la pensate così.

 

Se vogliamo progredire nel cammino del Rinnovamento dobbiamo incominciare dalla Via Purgativa. Non si sfugge.

Voglio porre il problema nei termini del dilemma che è comune a tutte le istitu­zioni.

 

 

Il dilemma istituzionale: l’individuo e l’istituzione

 

Questo primo problema concerne la scel­ta fra Apostolato privato (dell’individuo) e Apostolato istituzionale. Se come Comunità decidiamo di salvaguardare l’individuo con le sue esigenze, dobbiamo sacrificare le grandi istituzioni e perdere la nostra iden­tità comunitaria. In questo caso l’Ordine è destinato a sparire in breve tempo. Se in­vece scegliamo l’altra faccia della medaglia, cioè di continuare nelle grandi istituzioni, succederà che i Fratelli si troveranno im­pantanati, per così dire, nelle molte attività inerenti a tali istituzioni, e anche in questo caso l’Ordine è destinato a perire.

 

In ogni caso ciò che va evitato è di prendere decisioni che risolvano il dilemma in base all’orgoglio di istituzione.

 

Esiste anche una terza soluzione, che chiamerei pseudosoluzione. Continuare ad esistere come Ordine formando dei Fratelli disponibili ad accettare la «missione» di inserirsi in Apostolati personali o nelle grandi opere istituzionali. I Fratelli diven­tano così il centro unificatore di Apostolati radicalmente opposti. In superficie il di­scorso fila: ma esaminiamolo alla luce del­la fede, e vedremo che si tratta semplice­mente di un’utopia. E’ vero, la Comunità in se stessa ha una bellezza e un valore intrinseco, ma, se vogliamo essere onesti, che differenza esisterebbe, in tal caso, fra noi e qualsiasi altro gruppo operante nei mondo? Solo coloro che agiscono per or­goglio di corpo possono concludere che ciò che importa è mantenere la Comunità a tut­ti i costi, la Comunità al centro di tutto! In pratica però l’emergere di questo nuovo tipo di Comunità è destinato a creare un dilemma ancora più tragico, che si può espri­mere pressappoco così: permettere ai Fra­telli di inserirsi in Apostolati soggettivi, di scelta personale, col rischio di perderli al­l’Istituzione, o di perderli come persone autentiche in seno alle grandi Istituzioni Comunitarie.

 

Il  secondo dilemma è quello «comuni­tario», con la seguente alternativa: miglio­rare la Comunità le cui energie sono tutte dirette al di dentro, o migliorare la Comu­nità le cui energie sono tutte dirette al di fuori, in ogni caso per assicurare l’integrità. Nel primo caso abbiamo una Comunità, in cui i Fratelli guardano solo a se stessi, nel secondo abbiamo una Comunità in cui i Fra­telli guardano solo a coloro che essi ser­vono.

 

Se scegliamo di occuparci della prima alternativa, cioè della Comunità che chia­meremo «introversa», non ci sfugge il pe­ricolo di sterilità, di soffocamento, di morte. Se optiamo per la seconda alternativa, cioè la Comunità «estroversa», non ci sfugge il pericolo che i Fratelli rimangano «brucia­ti» dalla loro stessa attività apostolica e si isteriliscano. Anche qui la Comunità è con­dannata a morte.

 

Certo all’uomo « ragionevole » tutte e due le soluzioni possono sembrare plausi­bili, ma all’uomo « di fede» appaiono chia­ramente come frutto di « orgoglio di istitu­zione ».

 

Nessuna Comunità totalmente «intro­versa» o totalmente « estroversa » può spe­rare di mantenersi in vita. L’esistenza e la comunione, non dimentichiamolo mai, sono la stessa cosa.

 

Che cosa dunque ci dice la fede circa la nostra Comunità?

L’orgoglio è l’antitesi della fede. L’orgo­glio crea false centralità che, per la loro intrinseca debolezza, diventano fattori di divisione. La sola Comunità, la sola frater­nità che può sperare di sopravvivere, di crescere dinamicamente, di realizzarsi anche sul piano umano e di portare frutti aposto­lici, è la Comunità e la fraternità che pone Dio al centro di tutto, e Dio solo.

 

Sarebbe assurdo affermare che il Rinno­vamento è il centro della nostra vita: fare ciò significherebbe fare del Rinnovamento un idolo. Sarebbe pure assurdo fare della Comunità rinnovata il centro della nostra vita. Fare ciò significherebbe creare un’al­tra divinità.

 

Ciascun Confratello deve sforzarsi di mettere Dio al centro di se stesso, e una volta fatto questo, di scoprire Dio al centro della sua Comunità. Nella misura in cui ciò si realizzerà, l’integrità personale di ciascu­no e la comunione di ogni Comunità diventeranno delle vere e proprie realtà.

 

Ho già detto sopra che Dio non risiede alla periferia delle cose, ma al loro centro. Dio è il Centro delle cose. E’ facile di Dio, agire per Dio, rivestire, per così dire, i panni di Dio, e continuare a alla superficie delle cose, col pericolo di sparire da un momento all’altro. L’orgoglio di istituzione, anche nel nostro sforzo di Rinnovamento, non è la risposta al problema.

 

L’unica risposta è di trovare Dio al centro delle cose e riscoprirLo come centro di ogni realtà. Rinnovarci, significa stroncare quella tendenza al male e alla superficialità che ci viene dal vizio dell’orgoglio. Signifi­ca rivivere, attraverso la virtù della fede, la nostra scoperta di Dio al centro di tutte le cose, e così realizzare la pienezza e la felicità completa del nostro essere.

 

 

Il dilemma della crescita: staticità o dinamismo

 

Un religioso, una Comunità o una Pro­vincia che si dichiarino convinti dell’assolu­tezza e della finalità delle nostre forme di esistenza, così come sono oggi, fanno ciò ispirati non dalla fede ma dall’orgoglio. Altrettanto, un religioso, una Comunità o una Provincia che giudicassero senza valo­re, e perciò degno di mutamento radicale, ciò che si è fatto nel passato, agirebbero per orgoglio e non certo alla luce della fede.

 

Tl dilemma, però, esiste nell’Ordine, e per noi Superiori Maggiori costituisce un problema: come affrontarlo?

Se decidiamo che nulla va cambiato, fis­siamo lo « Status Quo », invece che Dio, come Centro del nostro mondo. Se, al con­trario, siamo propensi a cambiare tutto, mettiamo al cuore della realtà l’adatta­mento invece che Dio! E allora?

 

Il nostro compito, come religiosi e Su­periori Maggiori, è di esaminare sia il vec­chio che il nuovo alla luce del Vangelo, della vita di San Giovanni di Dio, dei reli­giosi che compongono il nostro Ordine, dei segni dei tempi. Il « vecchio » ha valore in quanto ha Dio come Centro della sua realtà. Lo stesso dicasi del « nuovo ». L’orgoglio di corpo, incapace di scoprire la centralità di Dio, tenterà di causare nell’Ordine divi­sione fra quelli che hanno fatto un dio delle cose passate e quelli che hanno fatto un dio delle cose nuove.

 

Inutile dire che in ambedue i casi si tratta di vera e propria idolatria: ciascuna parte si ostina a considerare le sue vie come le vie di Dio. Il Vaticano II, però, nel « Per­fectae Caritatis» e nella «Gaudium et Spes» ci ha insegnato due cose molto chiaramente: la prima, che rinnovare lo Spirito e il Carisma significa scoprire Dio al centro di ogni realtà; la seconda è che dobbiamo adat­tare questo spirito rinnovato ai segni dei tempi. Solo in un secondo tempo, cioè dopo la riscoperta di Dio e della sua Centralità, si deve procedere all’adattamento della no­stra crescita comunitaria e del nostro ser­vizio apostolico nello Spirito.

 

Molle Comunità religiose, inclusa la no­stra, hanno fatto seri sforzi per adattarsi ai segni dei tempi, ma solo in superficie. Nella « Gaudium et Spes » i segni dei tempi sono visti come realtà interiori e come con­flitti. Quindi l’aggiornamento richiesto deve riguardare il cuore dei Fratelli che vivono in comunione, più che le loro azioni e le esteriorità.

 

Fratelli miei, che nessuno di noi osi af­fermare che Cristo è con noi in questo no­stro cammino di Rinnovamento se Dio, Suo Padre, non sta chiaramente al centro dello stesso.

 

Come dunque può un Fratello discer­nere se Dio è veramente presente in se stesso e nella Comunità, come centro di ogni realtà?

Prima di tutto occorre soffocare l’orgo­glio, sia personale che comunitario, con la virtù dell’umiltà. Così facendo, ciascuno scoprirà la sua personale insufficienza e la insufficienza della sua Comunità ad essere centro ultimo delle cose. Scoprirà anche la grandezza e la magnificenza di Dio che è l’unico Centro autentico. Infine scoprirà che, sia in se stesso che nella Comunità; esiste una grande bontà e il potere di rea­lizzare in comunione con Dio un autentico Rinnovamento.

 

San Paolo ci insegna anche altre vie per discernere la presenza dello Spirito Santo in mezzo a noi affermando che Dio si ri­vela attraverso i Suoi frutti e i Suoi doni.

 

Prima di azzardarci a leggere i segni dei tempi, impariamo a discernere la pre­senza dello Spirito Santo. Vi riusciremo solo in un contesto di preghiera e di rifles­sione comunitaria.

In questa atmosfera, i Fratelli riescono a comunicarsi sia la presenza che l’assenza di questi frutti e di questi doni dello Spi­rito. Stiamo attenti, però, a non ingannarci nel processo di discernimento.

 

Se seguiamo il nostro orgoglio, potremo anche fare di questi frutti e di questi doni un uso fraudolento, superficiale ed errato. Il criterio ultimo della presenza dello Spi­rito in noi stessi e nella Comunità rimane sempre la comunione che esiste fra di noi.


Se questa comunione assomiglia a quella che esiste fra il Padre e il Figlio, i frutti e i doni che esperimentiamo sono veramente quelli dello Spirito Santo.

 

 

Il dilemma morale: spirito o lettera della Legge

 

Le risposte al mio questionario e le va­rie sintesi provinciali rivelano nell’Ordine, oggi, due forze opposte. Un gran numero di Confratelli è del parere che, alla base e al centro del nostro processo di Rinnova­mento si pongano le Costituzioni, gli Statuti Generali e i Direttori Provinciali. In una parola, essi vogliono ritornare all’osservanza stretta e rigida delle Costituzioni. Un altro gruppo, altrettanto nutrito, ignorando il primo, insiste sulla urgenza di uno studio approfondito dei Documenti Conciliari, di un ritorno allo spirito del Fondatore, di una immersione nel messaggio evangelico. Questo rappresenta, per loro, la base e il centro di ogni Rinnovamento.

 

Che cosa devono fare i Confratelli, che cosa dobbiamo fare noi, Superiori Maggiori, di fronte a queste forze opposte? La nostra maggiore responsabilità è di creare l’unione di tutti i Fratelli. Quando emer­gono polarizzazioni radicali come queste, dobbiamo forse sederci con le mani in mano, nella speranza che Dio intervenga a ri­solvere i problemi? Dobbiamo mettere la difficoltà in un cassetto e lasciarvela, fa­cendo finta che non esiste? Dobbiamo schie­rarci da una parte o dall’altra, contribuendo così alla divisione dell’Ordine?

 

Secondo me, un dilemma così fondamen­tale può essere risolto solamente con la consapevolezza profonda che esiste il peri­colo di un orgoglio di istituzione. L’orgo­glioso, non dimentichiamolo mai, elimina Dio dal cuore delle cose e lo rimpiazza con beni minori e falsi idoli. L’uomo di fede, invece, sperimenta la centralità di Dio in ogni realtà, sia vecchia che nuova.

 

A coloro che insistono sulla rigida os­servanza delle Regole e Costituzioni come centro del nostro cammino di Rinnovamen­to, io chiedo: « Dove si trova Dio »? La stes­sa domanda pongo a quelli che si ostinano sulla interpretazione letterale dei Documen­ti del Vaticano II. «Dove si trova Dio»? Il fare di una o dell’altra di queste posi­zioni un idolo significherebbe creare una spaccatura fatale. A tutte e due queste « par­ti » vorrei suggerire: andate a fondo delle cose e scoprirete il fine ultimo! Come ci dice San Paolo nella sua lettera ai Romani: «Ora però siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionie­ri, per servire nel regime nuovo dello spi­rito e non nel regime vecchio della lettera» [35]. La Nuova Legge ci viene dal Figlio di Dio fatto uomo. Lo spirito che anima questa Nuova Legge è lo Spirito Santo di Dio. E’ una legge scritta nei nostri cuori.

 

Dobbiamo anche noi cercare lo Spirito di Dio nella lettera della nostra Regola e nella lettera delle nuove Costituzioni della Chiesa post-conciliare.

 

Riflettano quei Fratelli e quei Provin­ciali che sono convinti che la salvezza si trova nella stretta osservanza della legge, che lo Spirito viene prima della legge. E facciamo riflettere tutti gli altri! E cerchia­mo di essere sensibili alla Sua ispirazione e di discernere la Sua presenza!

 

D’altra parte, quei Fratelli e quei Pro­vinciali che si aggrappano alle parole del Vaticano II devono anche loro imparare una lezione, che è fondamentalmente la stessa: siamo nello Spirito, non nella let­tera della Legge!

 

Non abbiano paura i Provinciali di spin­gere i loro Fratelli ad una seria ricerca di Dio al centro dell’universo. Dicano loro chiaro e tondo che l’orgoglio tende a rimuo­vere Dio dal centro delle cose per rimpiaz­zarlo con idoli facilmente fabbricati e quasi sempre falsi.

 

Uomo morale è colui che mette il bene ultimo al primo posto nella sua vita.

 

Uomo morale è colui che cerca prima la pienezza del suo essere e della sua feli­cità anche umana. uomo morale è colui che si sforza di vedere che questi valori siano non solamente suoi ma anche dei suoi Con­fratelli.

 

Le leggi umane, in una istituzione, sono certamente utili, anzi necessarie, però sono buone solamente quando sono proporzio­nate alla Nuova Legge, che ci impone di amare Dio e il prossimo come noi stessi. Quando invece queste leggi umane diven­tano fini a se stesse, quando cioè si met­tono al centro del nostro mondo, prenden­do il posto di Dio, allora diventano perico­lose e anche distruttive.

 

Senza dubbio dobbiamo essere uomini morali, ma non legalisti, perché solo l’uomo morale può essere uomo religioso.

 

 

Il dilemma religioso: esteriorità e costri­zione o interiorità e libertà

 

Parlando dell’orgoglio personale ho det­to che l’orgoglioso è un uomo vuoto che tenta di mettere la sua povertà al centro di tutto ciò che incontra. E’ ancora l’orgo­glio, quello di corpo, che porta un Ordine Religioso alla stessa povertà interiore. Suc­cede allora che quest’Ordine cerca di farsi accettare più per mezzo delle cose esterne che dei veri valori. Siamo tutti al corrente della caduta di Roma, un impero svuotato di ogni ricchezza morale e adorno solo della sua gloria imperiale. E’ un paradosso della storia ma è così: l’esteriorità è diret­tamente proporzionale al vuoto interiore!

 

Quando non esiste autenticità si tende ad appoggiarsi sul superficiale. Purtroppo, e noi l’abbiamo visto, la stessa tragedia è accaduta per la Chiesa.

 

Oggi però l’esteriorità non inganna più nèssuno. La nostra società sembra essere sensibile in proposito, e capisce che là dove il primato è concesso alla esteriorità, immediatamente subentra il rischio della costrizione. Quando poi questa esteriorità è tenuta in piedi a tutti i costi, se non c’è libertà, la gente capisce subito che si tratta di sole apparenze! In realtà l’autorità è morta!

 

La facciata splendida del decadente Im­pero Romano non trattenne affatto i Bar­bari dal saccheggiarlo a piacere! E si capi­sce: il «centro » era morto! Fu solo quando un uomo semplice, vestito poveramente, con in mano una nuda croce arrivò a Roma, con in cuore la forza di Cristo, che i Bar­bari si ritirarono. Leone Magno, da solo, riuscì a fare ciò che gli eserciti imperiali non avevano potuto. Leone era umile, ben consapevole di non essere lui il centro di Roma. Nella sua semplicità proclamò ai Bar­bari che Dio, in realtà, stava al centro dei resti di questo impero. Ed essi fecero mar­cia indietro, non davanti al potere di Leone ma davanti al potere di Dio.

 

Diamo ora uno sguardo al nostro Or­dine e chiediamoci onestamente (anche se far questo ci può costare!) se forse non stiamo recitando la stessa farsa. Tutte le decorazioni dorate di un tempo che fu, esi­stono ancora fra di noi, ma al centro, esiste qualche cosa di autentico? Forse che l’abito che portiamo, le pratiche monastiche che compiamo, la grande istituzione che diri­giamo riescono a convincere gli uomini che, nel centro, esiste veramente Dio? O forse, per usare le parole del Nuovo Testamento, siamo un po’ come i Farisei: « ipocriti, se­polcri imbiancati, che all’esterno sembrano belli ma dentro sono pieni di ossa e di mar­ciume »? [36].

 

Fratelli miei, queste sono domande, non risposte! Un vero religioso si pone queste domande ogni giorno. O forse il nostro or­goglio di corpo ci impedisce di porre queste domande alla nostra Comunità, alla nostra Provincia, al nostro Ordine? La verità — ce lo ha detto Gesù stesso — è l’unica cosa che può aiutarci a realizzare la vera comu­nione tra di noi.

 

L’orgoglioso, che non si assoggetta a nes­suno, che si mette al di sopra di tutti gli altri, Dio incluso, e mette la sua volontà al di sopra di tutte le cose, si sente com­pletamente autosufficiente, non disponibile ad accettare nessun dono, neanche quello della verità. Questo orgoglioso è l’uomo meno libero che esista, l’uomo più prigio­niero di una infinita moltitudine di esigenze che non riesce mai a soddisfare, di una infi­nita moltitudine di cose che non lo accon­tentano mai.

 

L’umile, invece, l’uomo che ha scoperto Dio al centro del suo essere e che è dispo­nibile ad accettare il dono della verità, è anche l’uomo più libero di cercare l’intima comunione con gli altri. Dalla interiorità scaturisce la libertà perché « la verità vi farà liberi » [37].

 

E’ anche interessante vedere come la Comunità orgogliosa, che è Comunità vuo­ta, è quella che si sente più costretta nelle relazioni interpersonali. Tutto è nascosto e segreto, anche se in fondo in fondo, que­sto vuoto causa un senso di vergogna. Una Comunità di questo genere non sa col­laborare con altre Comunità religiose; cerca di esercitare un controllo assoluto sul per­sonale laico che lavora nel suo seno, e sui malati. Se è una Comunità maschile rara­mente collabora con le donne, e se è una Comunità femminile, raramente collabora con gli uomini.

 

Questo è il frutto dell’orgoglio di corpo. Solo l’esteriorità appare, perché di dentro c’è solo il vuoto.

La Comunità che mette Dio al suo cen­tro, invece, è Comunità di amore e di co­munione perché è Comunità di libertà. Non si lascia a scoraggiare dalle sue debolezze. Non ha in sé quei vuoti che servono a creare barriere che la dividono da altre Comunità. Anzi, dipende dalla forza di Dio, dai Suoi doni e dalla presenza dello Spirito Santo.

 

Questi fattori la rendono libera, dispo­sta alle relazioni con gli altri, alla coopera­zione, e ad una Ospitalità Universale come quella di Cristo che non chiudeva le porte del suo cuore a nessuno. Questa è una vera Comunità, che si sente a suo agio alla pre­senza di Dio.

 

 

Il dilemma della sicurezza: isolamento - par­tecipazione

 

Penso che sia giustificato dire che il no­stro Ordine è meglio conosciuto per il suo isolamento nella Chiesa e dalle altre Congre­gazioni Religiose, che per la sua partecipazione nella stessa e con le stesse. Questo isolamento sembra aumentare il senso di sicurezza di alcuni fra di noi, restii a par­tecipare in pieno alla vita della Chiesa Uni­versale, Essi si oppongono ad ogni inter­ferenza nelle loro Case e probabilmente nei loro cuori, da parte di questa Chiesa.

 

Poche sono le Comunità che invitano esperti dal di fuori per aiutarle. Anche il Generale è criticato severamente da molti perché insiste sul valore e sul bisogno di questo aiuto dall’esterno. Sono il vostro Generale e parlo per esperienza. Esperi­mento anch’io questa riluttanza ad aprirmi completamente agli altri, sia quando do che quando ricevo. So che questa riluttanza de­riva da un senso di insicurezza, che a sua volta viene dall’orgoglio. So che dobbiamo purificarci in questo campo, se vogliamo veramente crescere insieme.

 

E’ pure vero però che questi esperti, una volta penetrati nelle nostre fortezze sia di individui che di Comunità, hanno sco­perto pochi segreti interiori. Tutte le Co­munità religiose, non solo quelle del nostro Ordine, passano attraverso la stessa prova. Noi però, ci sentiamo « sicuri » tenendo i nostri segreti per noi.

 

Il cercare sicurezza in questo isolamento ha la sua radice nel vizio che abbiamo chia­mato «orgoglio di corpo». La sicurezza umana non si trova mai dietro ad una porta sprangata, all’interno di una fortezza ben protetta, o in una cella di rigore. La sicu­rezza per l’uomo, come ci ha detto bene la « Gaudium et Spes », non è simile a quella che cerchiamo di assicurarci quando met­tiamo sotto chiave i nostri tesori per evi­tare che ci siano rubati. E’ invece simile alla sicurezza del Figlio di Dio il quale, anche se abbandonato dal Padre sulla Cro­ce, era totalmente a suo agio, perché era unito al Padre Suo. La sicurezza umana si trova nel cuore aperto e nella mente aperta. Il Concilio ci ha insegnato che l’uomo è sociale per sua stessa natura [38] e che la vita è un incontro, e che maggiore è la comunione, più piena e più sicura è la no­stra identità.

 

Cari Fratelli, vi scongiuro, apriamo le porte dei nostri conventi così che i nostri Fratelli possano stabilire comunione con altre Comunità che non siano le nostre. La­sciate che altri entrino attraverso queste porte, portando con sé i loro tesori reli­giosi per parteciparceli.

 

La Comunità orgogliosa si caratterizza per l’isolamento che esiste anche fra Comu­nità del nostro Ordine, fra Provincia e Pro­vincia, e fra i membri tutti della nostra fa­miglia religiosa. La Comunità orgogliosa si caratterizza per la lentezza con cui affronta il problema della Formazione Permanente, come se avesse già raggiunto la cima della perfezione.

 

La Comunità orgogliosa, non avendo cen­tro proprio, manca di iniziative e di energie per attirare nuovi membri a se stessa. Igno­ra le opere missionarie dell’Ordine, si di­sinteressa di ciò che accade in altre Comu­nità, in altre Province. Non sa niente delle reali condizioni delle città in cui vive.

 

E’ incapace di leggere i segni dei tempi accuratamente. Il suo servizio è esplicato in modo perentorio, di malavoglia. I beni che riceve, li riceve senza gratitudine o ma­gnanimità.

 

Cari Fratelli, se nelle vostre Comunità o Province scoprite qualcuno di questi se­gni, sapete qual è il compito che vi attende. Occorre aiutarci a vicenda per purificarci dal vizio dell’orgoglio di corpo. Arricchiti e vivificati, nella fede, dal vero Rinnova­mento dello Spirito, dobbiamo insieme sfor­zarci di scoprire l’abbondanza della vita che sarà nostro retaggio quando avremo messo Dio al Suo vero posto, cioè al cen­tro dell’universo.

 

Se all’origine della nostra insicurezza e del nostro isolamento troviamo l’orgoglio, come potremo esperimentare comunione e sicurezza? Chi ci aiuterà a comprendere il senso dell’appartenenza? Può forse un mem­bro del corpo dirci che cosa significa partecipare all’essere dell’anima umana? Possia­mo contemplare il palmo della mano, i pe­tali di un fiore, i rami di un albero, le stelle del cielo, il mare, la terra, e imparare da loro che cosa significa comunione e senso di sicurezza? Osiamo guardare in faccia il Figlio di Dio che divenne uno di noi attra­verso una unione che Egli stesso paragonò a quella che esiste fra vite e tralci?

 

E che dire dello Spirito Santo? Non è forse vero che vive in noi come in un tem­pio? E non è forse anche questo un modo di partecipare al nostro essere uomini? Sen­za dubbio Gesù parlò spesso della sua unio­ne con il Padre e con lo Spirito Santo! Osiamo noi contemplare questo mistero dei misteri, e scoprirvi ciò che Gesù ci ha rive­lato in proposito, cioè il mistero della no­stra comunione? Come riusciremo a libe­rarci dal vizio dell’orgoglio che ci rende cie­chi, incapaci di afferrare la bellezza di un tale mistero?

 

Preferirei non attirare la vostra atten­zione su questo aspetto della vita religiosa. Magari fossimo tutti esenti e liberi da que­ste sorgenti di male e di vizio! Il nostro Rinnovamento, però, non sarebbe mai au­tentico se non parlassimo chiaro sulle no­stre cattive inclinazioni. Solo prendendo l’orgoglio di petto, nella sua cruda realtà, riusciremo a vincerlo sia in noi stessi che nella Comunità. Partecipiamo di questa vit­toria mentre ci accingiamo al Rinnovamento interiore del nostro Spirito e del nostro Carisma.


 

Capitolo Terzo

 

 

GLI ALTRI VIZI CAPITALI

 

 

Dovremmo, a questo punto, sentirei di­sposti ad ammettere che siamo peccatori e che abbiamo in noi quei sette vizi che han­no il potere di distruggere quella unione con il Padre che Egli tanto desidera per noi. Forse la nostra conoscenza dell’orgo­glio, il più distruttivo e letale dei sette vizi capitali, è aumentata. Oltre ad essere prin­cipio degli altri sei vizi capitali, l’orgoglio è anche radice di innumerevoli peccati. Ne abbiamo parlato estesamente. Adesso dob­biamo affrontare gli altri sei vizi. Sono di opinione che basterà farlo in maniera più breve. Essi non sono così vicini al centro del nostro essere, come lo è l’orgoglio. Sono perciò più facilmente individuabili attraver­so i segni che li rivelano.

 

 

Il vizio della gelosia

 

Per realizzare la comunione occorre comprendere, e porre freno alla gelosia o invidia, che nella superbia trova le sue ra­dici. Siamo in comunione con gli altri quando, pieni di compassione e di amore per loro, scopriamo la bontà e la bellezza che sta al centro del loro essere, e ne siamo attratti.

 

Quando percepiamo che un Fratello è buono, sia in superficie che in profondità, la nostra risposta normale è il desiderio di emulazione.

 

Ammiriamo il bene che vediamo nell’al­tro e sentiamo l’urgenza di realizzarlo an­che noi. Forse, senza neanche accorgercene, apprezziamo questo bene come un dono di Dio. Gli siamo grati per averci dato la gioia di vivere accanto ad una persona buona.

 

Qual è l’impatto della gelosia sulla com­passione e sull’amore che proviamo per gli altri? Certamente la gelosia non illumina la bontà interiore di un Fratello che ha Dio al centro del suo essere! Anzi, la luce che la gelosia getta sul Fratello è luce grottesca, che rende orrendo, repellente, antipatico e forse anche isolato non solo il geloso, ma anche chi è oggetto della sua cattiveria.

 

Una gelosia che si fermasse ai beni, ai successi, alle qualità dell’altro, sarebbe su­perficiale e sciocca. In realtà, la gelosia va oltre: essa cerca di diminuire questi beni e questi successi.

 

La gelosia che prevale nelle Comunità religiose è di tipo più esistenziale. Si preoc­cupa di diminuire il bene ultimo del Fra­tello.

 

Teologicamente parlando, la gelosia è debolezza, debolezza derivante dal fatto che il geloso è profondamente consapevole di essere creatura. Ma questa consapevolezza implica una relazione personale con Dio, bene ultimo che vive al centro di ogni crea­tura. La gelosia non riesce a distruggere questa relazione: ecco perché ho parlato di debolezza.

Però, se non distruggere, questa rela­zione si può indebolire, o diminuire. Ecco perché ho detto che la gelosia attacca l’amo­re e la comunione tra i Fratelli: in questa comunione si intensifica e si nutre l’unione intima dell’uomo con Dio.

 

Apertamente o di nascosto, il geloso fa di tutto per diminuire il rapporto dei Fra­telli con Dio. La gelosia non accetta la vera santità, mette in ridicolo l’autentico spirito di preghiera, si mostra sospettosa della cre­scita genuina nello spirito. La gelosia ha le sue radici nel disprezzo che prova per se stessa, disprezzo che a sua volta, assume la maschera dell’amor proprio. Il suo po­tere come vizio viene scatenato dalla inca­pacità propria del geloso di voler entrare in rapporto con Dio o con il prossimo. La gelosia rende ciechi alla bontà altrui: non possedendo la comunione, il geloso fa di tutto per distruggerla sia tra i Fratelli, che tra questi e Dio. E’ un modo come un altro di mettersi al livello di coloro che sono oggetto della sua passione. Infatti la co­munione con Dio e con i Fratelli è il mag­giore, il più spirituale e il più immutabile dei beni, e sorgente di ogni felicità per l’uomo. In comunione con gli altri noi ri­troviamo noi stessi e il nostro essere.

 

Ci chiediamo: « Ma perché mai un Fra­tello desidera di possedere la bontà che è parte costitutiva di un altro? La ragione è che così facendo egli oppone resistenza alla bontà che Dio ha creato in quest’altro. L’in­vidioso non sa accettare il vuoto che esiste in lui, e cerca di innalzare questo vuoto al di sopra della pienezza che egli scopre nel Fratello. In fondo in fondo desidera dive­nire il bene che vede nell’altro ma non in se stesso, tuttavia, l’invidia non è il mezzo con cui elevarci alla figliolanza di Dio! An­zi, il miglior modo per divenire schiavi! E schiavi di fatto diventiamo quando ci sfor­ziamo di riempire il vuoto della coppa del nostro io diminuendo la bontà dell’altro.

 

Invidia e amore stanno agli antipodi. Ar­monia, pace, gioia, pazienza, bontà: tutte queste cose riescono intollerabili al Fratello vittima della gelosia. Sospetti, distorsioni, bugie, pettegolezzi senza fine, mormorazio­ni, calunnie, tristezza per il bene altrui, sor­risi maliziosi, soddisfazione per l’insuccesso dei Fratelli: ecco le armi del geloso per creare divisione in Comunità. Paura, ten­sione, spaccature, amicizie morbose, stereo­tipi o « etichette » appiccicati al prossimo, ricordi oscuri, risentimenti, antipatie, ven­dette: ecco i frutti della gelosia, sguinza­gliata nella Comunità!

 

Le vie della gelosia sono sottili. L’angelo delle tenebre può assumere le apparenze dell’angelo della luce. Eccentricità, stranez­ze, innovazioni, idee « originali », possono nascondersi sotto il manto della correzione fraterna, per il « bene della Comunità ».

 

Certi doni umani e certe attitudini pos­sono irritare qualcuno, e le parole e le azio­ni del geloso riescono a diventare plausi­bili e ad apparire ben intenzionate. Atti­rando su qualche difetto esterno dell’altro l’attenzione, il geloso riesce a distruggere la bellezza e la bontà. La persona gelosa non piace a nessuno, d’accordo, ma accade che chi è vittima della sua gelosia e della sua invidia diventi pure antipatico e difficile da amare. Tanto più il geloso riesce nel suo intento di sminuire la bontà del­l’altro, tanto più cresce nella Comunità il disagio, e i Fratelli si trovano essenzial­mente isolati gli uni dagli altri, prigionieri nella cella di rigore creata dalla gelosia.

 

 

Il vizio dell’ira

 

Contrariamente agli altri vizi capitali, l’ira può anche essere virtù. L’ira è virtù quando è diretta contro il male, la falsità, l’ingiustizia, l’odio. Non è un compito facile incrementare il bene comune. Ci sono osta­coli sul sentiero del bene che vanno supe­rati con energia. Il bene comune è quello che è diretto a tutti e a ciascun membro del gruppo senza distinzioni, alla pienezza della felicità di tutti quei membri. E’ più naturale che i Fratelli provino sdegno quan­do tutto ciò è messo a repentaglio dalla compiacente accettazione del vizio dell’ira, anzi è indice di virtù! L’ira in se stessa può anche trovare una giustificazione, ma diventa vizio in due casi: quando si adatta alla persona interessata e quando non è proporzionata alle sue cause.

 

In caso di difficoltà, l’agire con passio­ne e con fortezza diventa una necessità. Pas­sione e fortezza, cattive quando sono eser­citate per ostacolare un bene, diventano virtuose se si tratta di combattere un male.

 

La passione è necessaria per superare la violenza che nasconde il vizio dell’ira in una Comunità religiosa. Va però mode­rata dalla compassione e dalla prudenza. Se no, rischia di mandare a pezzi la Co­munità.

 

L’ira è vizio quando è sinonimo di desi­derio sfrenato di punire gli altri perché sono buoni e fanno il bene. In ultima ana­lisi, in un io svuotato dei suoi veri valori, è indice di vuoto interiore. Pretendere di reprimere l’ira, di soffocarla, magari di divertirla, trasferendola sugli altri, può cau­sare divisioni insanabili nella Comunità. L’ira è direttamente opposta alla virtù del­la carità e della giustizia, milita attivamente contro la comunione fraterna, si nutre di orgoglio, che ne è la radice, e diventa sor­gente di molti peccati.

 

Lanciandosi contro il bene, qualsiasi for­ma di bene, l’ira merita la condanna che Cristo le ha lanciato [39]. Nella Comunità religiosa l’ira assume aspetti differenti.

 

Un Fratello schiavo dell’ira è un uomo pieno di amarezza. Non sa dimenticare of­fese e ingiustizie ricevute, di cui cova il ri­sentimento, senza riuscire a vincersi. Se scopre che gli altri sono buoni, che si vo­gliono bene, si irrita e diventa violento. Come l’invidia e la gelosia, anche l’ira si nutre di distorsioni. L’iroso concentra la sua attenzione sulle circostanze ordinarie della vita comune. Azioni buone di propria natura, ma compiute forse con una certa goffaggine, sono da lui giudicate assoluta-mente negative. Una osservazione buttata lì con buona intenzione, ma forse senza troppa prudenza, o un gesto di questo tipo è per lui una falsità. Piccoli comportamenti, che possono apparire non del tutto caritatevoli, diventano una scusa che scatena i suoi malvagi propositi, giustificandoli. L’iro­so si consuma nel desiderio di vendetta contro i suoi cosiddetti nemici: allora di­venta esplosivo, attacca gli altri con un tor­rente di accuse cattive e maliziose. La si­tuazione peggiora quando la vittima del­l’ira è consapevole della sua cattiveria e della sua tendenza a questo vizio.

 

Nell’estremo dei casi l’iroso alza il pu­gno anche contro Dio, maledicendolo per­ché è ingiusto contro di lui! Condanna Dio per averlo creato così e non cosà, e così facendo non si accorge nemmeno di be­stemmiare contro la divinità.

 

Nelle Comunità religiose l’ira ci sarà sempre: i sette vizi capitali sono il nostro retaggio. Però la nostra è un’ira « control­lata », dignitosa, e così capita che molto spesso non ce ne accorgiamo, non riuscia­mo a scoprire i suoi effetti deleteri. I Fra­telli che si odiano sono spesso, in appa­renza, i migliori gentiluomini. Affabilità, cordialità, cameratismo sono le maschere preferite dagli irosi, e portate con disin­voltura. L’ira, nelle sue manifestazioni più subdole, appare proprio il contrario di ciò che in realtà è.

 

Come l’invidia, l’ira trova le sue radici nell’assecondamento della tristezza e dello scoraggiamento: a loro volta queste danno origine all’odio. Mentre la felicità trova le sue radici nel bisogno di amare e di essere amati, l’ira la trova nel bisogno di allonta­nare gli altri dalla bontà, e ciò perché il Fratello succube dell’ira crede che gli altri non abbiano diritto ad essere veramente buoni, considerandoli indegni di ciò.

 

La risposta cristiana all’ira dovrebbe es­sere una risposta di indignazione. Le Co­munità religiose diventano forti e unite quando sanno affrontare le indegnità con una indignazione che è frutto di giustizia, una giustizia accompagnata dall’amore, i cui frutti sono la compassione e la misericor­dia. Ogni decisione presa dalla Comunità sul modo di affrontare il vizio dell’ira deve ispirarsi a queste sorgenti di luce: l’amore e la giustizia.

 

Se vogliamo camminare alla luce del­l’amore e della giustizia dobbiamo prima imparare a guardare in faccia alle multi­formi « ingiustizie » che purtroppo esistono nelle nostre Comunità e nei nostri Aposto­lati. E ciò perché ci vuole una buona dose di amore e un senso profondo di giustizia per far fronte, in maniera cristiana, al­l’ingiustizia delle molte indegnità che l’uo­mo può commettere.

 

Fratelli cari, senza dubbio avete tutti sperimentato in una maniera o in un’altra il potere deleterio che ha l’ira sulle nostre Comunità e sulle nostre Province. Come vo­stro Generale sono in una posizione di espe­rimentare qualcosa di più: il potere dele­terio che ha l’ira nelle relazioni fra Pro­vincia e Provincia. Il fatto è che esiste fra noi ancora troppa ingiustizia, ancora troppo poco amore reciproco.

 

E’ vero: in tutte le nostre Province, siano esse « di conservatori » o « progressisti », si trovano tanti valori, tanti punti positivi che vanno condivisi, e l’ira non è certo la via migliore per realizzare una autentica fratellanza. Tocca ad ogni Provincia, tocca ad ogni Provinciale e a ciascun Fratello, sentirsi responsabile del come affrontare il vizio dell’ira, sotto qualsiasi maschera si presenti. Nessuna Provincia può legittimare, col pensiero, con parole o con modi di fare questo vizio letale che separa i Fratelli fra di loro. Tutti abbiamo l’obbligo di promuo­vere la comunione e l’armonia, il rispetto reciproco e l’amore fra i vari gruppi della Provincia. Da ultimo, sta a ciascun Pro­vinciale accettare la responsabilità, che è sua, di riunire tutti i membri della sua Pro­vincia, nella sola grande Famiglia di San Giovanni di Dio.

 

 

Il vizio dell’avidità

 

L’avidità nella vita religiosa assume una colorazione leggermente differente da quella nel mondo, ma la sostanza è praticamente la stessa. L’avido e il mondo guardano alla gente e alle cose da una prospettiva di possessività, piuttosto che di esistenzialità. Né uno né l’altro riescono a vedere l’Univer­so come un dono, ed è logico. Quando si vede l’universo come un dono di Dio fatto a noi, bisogna per forza giungere alla con­clusione che noi siamo fatti per Dio: e que­sto è amore. Desiderare di possedere l’Uni­verso vuol dire disprezzarlo, come ha fatto Satana. L’umile, invece, percepisce che tutto è dono di Dio.

 

Nella «Gaudium et Spes» leggiamo: « Credenti e non credenti sono pressoché concordi nel ritenere che tutto quanto esi­ste sulla terra deve essere riferito all’uomo, come a suo centro e a suo vertice... La Sa­cra Scrittura infatti ci insegna che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio, capace di conoscere e di amare il proprio Creatore e che fu costituito da Lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse [40] per governarle e servirsene a gloria di Dio [41]. « Che cosa è l’uomo che tu ti ri­cordi di lui? O il figlio dell’uomo che tu ti prenda cura di lui? L’hai fatto di poco in­feriore agli angeli, l’hai coronato di gloria e di onore, e l’hai costituito sopra le opere delle Tue mani. Tutto hai posto sotto ai suoi piedi » [42] [43]. E’ quindi un errore cre­dere di aver diritto a tutti questi doni di Dio!

 

L’orgoglioso, come ho detto, non riesce a percepire il valore radicale del suo io e la Centralità di Dio nei suoi riguardi. Non è perciò conscio del valore altrui, e quindi desidera possedere gli altri più che unirsi a loro. L’orgoglio è radice di ogni avidità. Per la persona possessiva, l’Universo non è un dono, ma una proprietà. Con una persona simile, che agisce in base a queste convin­zioni, non si può fare comunione!

 

La possessività è un vizio che ha dei lati interessanti. Quando sperimentiamo il possesso dei nostri beni, tendiamo a tenerli nascosti e a proteggerli. Costruiamo mura­glie per difenderli e ci guardiamo bene dal condividerli con gli altri. Nella sua bramo­sia di possesso, l’avido finisce col lasciarsi possedere dalle cose. I beni di cui si sente padrone e lo controllano, mentre dovrebbe essere lui ad esercitare il controllo. Tutta la sua vita è in funzione delle sue posses­sioni, ma ciò lo rende in realtà schiavo.

 

Nelle Comunità religiose l’avidità esiste, e assume vari aspetti che meritano la nostra attenzione: possono esserci aspetti indivi­duali dell’avidità, e aspetti collettivi. Il re­ligioso, avendo fatto a Dio voto di povertà, non possiede nulla di fatto, eppure talvolta è schiavo del vizio dell’ingordigia, dell’avi­dità! Come può accadere questo? Dal punto di vista personale, alcuni religiosi diventano estremamente possessivi circa le strutture della vita comunitaria, gli impieghi che svol­gono, i luoghi dove vivono, le loro idee, le loro attitudini, il loro stile di vita. Invece di possedere tutte queste « cose », i reli­giosi ne sono posseduti: esse diventano il centro della maggior parte dei loro pensieri e delle loro azioni. Ad esempio, i Superiori sono spesso possessivi circa i dettagli am­ministrativi propri del loro ufficio, e più spesso si lasciano dominare dagli stessi. I Maestri dei Novizi e i Direttori degli Sco­lasticati assumono un’attitudine possessiva davanti a quelli di cui si sentono respon­sabili. Qualche volta si è tentati di credere che gli Economi abbiano il compito di pos­sedere il denaro invece che distribuirlo!

 

Nella vita religiosa l’opposto dell’amore non è l’odio, ma il controllo. Non si con­tano le persone che, nella Comunità re­ligiosa, sono state profondamente ferite o anche distrutte, dagli sforzi di certi in­dividui avidi e possessivi per controllare e dominare le loro vite. Non è forse giusto dire che l’urgenza di controllare gli altri è sinonimo di possessività e di avidità?

Vista in superficie, l’avidità nelle Comu­nità religiose diventa un fenomeno collet­tivo. I membri delle Comunità possono es­sere ancora più possessivi circa i loro beni collettivi che non gli ingordi dei loro beni privati. Però la possessività è un aspetto secondario e apparente dell’ingordigia. L’in­gordo non riesce ad essere sensibile alle bellezze e alla bontà dell’universo. Non rie­sce ad avere un rapporto con Dio, che si trova ai centro dell’Universo stesso. Pensa che tutto gli tocchi di diritto e questa insensibilità è il comune denominatore che prevale nell’ingordigia sia dei religiosi che dei secolari.

 

Quante volte ci siamo fermati per ammi­rare le bellezze di una stella che brilla in cielo, o di un uccello che canta, o di un bocciolo che si apre a primavera? Ci ca­pita mai di essere sopraffatti dalla bellezza di un volto umano di vecchio su cui si ri­flettono le gioie e i dolori di un’intensa esistenza? Rimaniamo qualche volta colpiti dalla semplicità e dalla bontà dei bimbi che giocano per le strade? Ci addormentiamo alla sera, ogni tanto, pensando alla bel­lezza dei volti e delle anime dei nostri Fratelli, ringraziamo il Signore perché fa ri­splendere su questi volti e in queste anime la Sua stessa bellezza? Purtroppo noi reli­giosi ci abituiamo a tante cose, e siamo convinti che ci spettino di diritto. E’ tra­gico, ma è così, e io penso che in ciò con­sista l’avidità che domina le nostre vite.

 

Il vizio dell’avarizia, il peccato della pos­sessività, affiorano in una maniera o in un’altra nelle Comunità religiose. E così i nostri Fratelli tengono i loro segreti na­scosti agli altri, non conoscono le gioie in­time e i dolori di coloro che vivono loro accanto nella stessa Comunità, la loro ric­chezza intima e la loro povertà, la pace che esperimentano e le ansie che li consu­mano, il loro bisogno di amore e di affetto, o la loro solitudine e sterilità.

 

E’ purtroppo vero che nelle nostre Co­munità il vizio dell’avarizia si rivela in que­sto modo: i membri divengono possessivi a tal punto da non voler mai, o quasi mai, rivelare agli altri il loro vero essere. Na­scondiamo la «nostra luce sotto il mog­gio » [44] come un tesoro sotto terra, e que­sta è possessività. Ci fidiamo di pochi Fra­telli, forse di nessuno! Diamo il nostro af­fetto a pochi, forse a nessuno: e questa è possessività. Non ci convinciamo ad aprire la nostra mente, il nostro cuore, il nostro amore a nessuno: e questa è possessività.

 

Siamo votati alla povertà e non posse­diamo beni materiali, ma poi siamo avari dei nostri beni spirituali. Non è forse que­sta avidità, anzi avidità nella sua forma più radicata? Come riusciremo a liberarci da essa? Come giungere a scoprire in che con­siste l’autentica liberalità e la vera genero­sità?

 

Solo svincolandoci dal vizio possiamo volgerci veramente a tutto ciò che è bene! Gli uomini di oggi considerano la libertà un bene di grandissima importanza e fanno di tutto per possederla, e hanno ragione! Quando si libera da ogni schiavitù delle cose materiali che possiede e si sforza di scegliere il bene, l’uomo acquista una di­gnità tutta speciale. Dio ci ha fatto dono di questo mondo affinché, nel dono, riu­scissimo a scoprire il Divin Donatore. Ma gli uomini che sono prigionieri dell’ava­rizia non sono aperti a ricevere questi doni. Per poterli ricevere ed apprezzare nel loro giusto valore dobbiamo svincolarci dall’avi­dità delle cose materiali, essere liberi, e, in questa libertà, lodare Dio per la gloria che è Sua e anche nostra!

 

Il vizio della lussuria

 

Come tutti gli altri vizi capitali anche la lussuria assume, nella vita religiosa, un aspetto diverso. Non lasciamoci però in­gannare dalle apparenze. La nostra castità è divenuta purtroppo fine a se stessa, in­vece che un mezzo di più intima unione con Cristo [45]. Abbiamo finito col giudicare la sessualità umana con la nostra mentalità di adolescenti, e così facendo abbiamo dato alla lussuria il potere di dividerci gli tini dagli altri.

 

Ricerche serie fatte sulla vita religiosa hanno portato alla conclusione che raramen­te esiste fra di noi una relazione veramente profonda, un’amicizia autentica, un amore durevole. Nel migliore dei casi i nostri rap­porti reciproci sono casuali, cordiali anche, di rado però sono durevoli e quasi mai ric­chi di una genuina intimità interiore. La colpa è della lussuria! Dove esiste unione e intimità, là c’è la vera castità. Dove ci si tiene a rispettosa distanza, là c’è la lus­suria!

 

Per comprendere questo vizio dobbiamo prima esaminare la condotta del lussurio­so. Incontrando un’altra persona, il lussu­rioso immediatamente percepisce in essa un oggetto per la propria gratificazione. Non prova niente per questa persona. In su­perficie vede l’altro nei termini di una ses­sualità di adolescente immaturo che guarda solo al lato fisico delle cose, senza vero amore e comprensione. Non esiste una vera intimità fra il lussurioso e l’oggetto del suo desiderio disordinato: naturale quindi che il suo rapporto non possa durare. La ragione è che non c’è un autentico inte­resse per l’altro, visto solo come oggetto, facilmente rimpiazzabile e sempre a dispo­sizione. Quando esso viene a mancare, il lus­surioso non ne avverte la mancanza. In una relazione lussuriosa non c’è spazio per la personalità umana.

 

Il    lussurioso è una persona vuota, senza un centro, senza una personalità, che non riesce a vedere gli altri se non in termini di povertà interiore, cioè giudicandoli con la sua stessa misura. Non è capace di dare né, tanto meno, di ricevere. Alla base di questo suo vuoto sta la mancanza di ogni vera interiorità.

 

Il  voto di Castità esiste prima di tutto per aiutarci ad amare Dio e poi per amare i Fratelli, e le due cose si identificano. Il voto non è fatto per garantirci contro la lussuria ma per renderci possibile l’amore. La lussuria, al contrario, « fa uso» degli altri: un uso sensuale, in superficie, un uso totale al centro delle cose. Come vizio capi­tale la lussuria è principio o radice di ogni uso o manipolazione degli altri. Non aspira a possedere, come fa l’avidità, che ha in se stessa una certa nota di permanenza. La lussuria si preoccupa di usare l’altro per riempire il vuoto che sta in se stessa. Nel senso più profondo la lussuria è desiderio di potere assoluto e di controllo totale sul­l’altro. Come ogni vizio capitale, è profondo allontanamento dal bene che l’altro è.

 

Se ci limitiamo a considerare la castità come un freno alle nostre inclinazioni ses­suali, o anche, in senso più immediato, co­me sacrificio del bene del matrimonio e della famiglia, o se la vediamo come potere e controllo, facciamo due cose molto compatibili fra di loro. Infatti quando nel mon­do un individuo si lascia prendere dal desi­derio sfrenato di potere, spesso egli tende a controllare i suoi istinti sessuali.

 

Solamente una castità considerata come dono di Dio, che ci permette di amarci a vicenda come Cristo ci ha amati, cioè in modo trascendente, completo e totale, di­venta veramente un dono che ci rende ca­paci di soffocare il vizio capitale della lus­suria fin dalle sue radici. La castità tra­sforma l’amore di tutti quelli che incontria­mo, in qualche cosa di naturale e di gioioso, mentre la lussuria rende questo impossi­bile.

 

Fratelli miei, dobbiamo costantemente vigilare. Come Superiori Maggiori dobbia­mo costantemente stare in guardia per non cadere nella tentazione di esercitare, in qual­che modo, un potere o un controllo asso­luto sopra i nostri Fratelli. La nostra auto­rità è sanzionata dal Padre che è nei cieli, ma appunto per questo è un dono ricevuto per liberare i nostri Fratelli dalla schiavitù della solitudine e dalla carenza d’amore, per formarli a quella unione che rispecchia l’unione che esiste fra il Padre ed il Figlio.

 

Tuttavia i Superiori di Comunità religio­se non sono i soli ad essere esposti alla ten­tazione del controllo. Tutti gli uomini sono vulnerabili in questo campo. Tutti gli uomi­ni sentono sulle spalle il peso dei sette vizi capitali. Tutti abbiamo una inclinazione al dominio così come tutti abbiamo in noi la capacità di amare in modo degno di Dio.

 

Quando in una Comunità religiosa difet­ta l’amore fraterno, probabilmente esiste la tentazione di controllare gli altri: ma questo controllo divide i Fratelli dai Fra­telli, le Comunità dalle Comunità, le Province dalle Province, e tutti noi dalla Chiesa.

 

Come possono i Fratelli usare questo potere per separare e per dividere? Può forse il pettegolezzo, sia esso ciarlone che malizioso, unire mai una Comunità? Che dire poi dei «sussurroni», di coloro che calunniano, che a torto parlano male dei loro Fratelli? Se ci prestiamo ad ascoltare certe cose, o peggio ancora, se siamo facili ad agire in conseguenza di certe cose, non diventiamo forse partecipi della sete di potere propria della persona che dice queste cose? Ciascuno di noi deve cercare di sco­prire in profondità la ragione per cui si preoccupa del lato meno bello che esiste in tutti gli uomini.

 

Quando guardiamo spassionatamente ai nostri ministeri apostolici, alle grandi isti­tuzioni che amministriamo, a tutto il la­voro che in esse svolgiamo, possiamo dire con onestà che la nostra motivazione, la molla di tutto questo attivismo, è vera­mente il Carisma di San Giovanni di Dio? Quanti sono i nostri Fratelli sparsi nel mon­do che continuano ad aggrapparsi alle loro posizioni di potere, come amministratori o supervisori? Non è forse vero che queste «cariche» ci incoraggiano ad esercitare un controllo sia sulle strutture che sulle per­sone che in esse collaborano? Non c’è dub­bio che questa sete di potere non può deri­vare dal nostro carisma! Viene invece dal desiderio sfrenato che abbiamo un po’ tutti di prevalere sugli altri.

 

Visitando la maggior parte delle nostre Province recentemente, ho visto che il no­stro carisma e la nostra testimonianza evan­gelica sono più vive là dove i Fratelli sono stati privati della proprietà e della ammini­strazione delle nostre strutture, e a volte non possono neppure indossare il loro abito religioso. Privati così di queste impalca­ture di sostegno, essi devono giocoforza aggrapparsi alle cose dello Spirito. E allora si manifesta la forza dei veri doni sopran­naturali, e con loro il carisma di San Gio­vanni di Dio.

 

Sono convinto che ciò che sta accadendo in molte nostre Missioni sia provvidenziale. Parecchi governi, pian piano, ma decisa­mente, ci stanno privando delle nostre pro­prietà e della direzione dei nostri Istituti. In tutto ciò, ripeto, vedo la mano di Dio che opera per il nostro bene: un bene sul quale bisogna riflettere e meditare per im­parare ad accettarlo, anche se sembra esa­gerata una simile affermazione.

 

 

Il vizio dell’ingordigia

 

Come la lussuria anche l’ingordigia è sta­ta molto diluita dall’uomo moderno. Direi quasi che sia stata eliminata dal pensiero contemporaneo. Essa non è più vista come radice da cui nascono molte azioni mal­vage.

 

Tendiamo a considerare l’ingordo come colui che è intemperante nel cibo e nella bevanda. Siccome a pochi piacciono gli in­dividui che conducono una vita animalesca, finisce che questi esseri si trovano evitati e isolati. Però l’ingordigia non è solo que­stione di cibo o di bevanda!

 

Se andiamo a fondo della cosa vedremo che l’ingordigia è un certo modo di guardare ai piaceri dei sensi, ai piaceri della vita. L’ingordo, o il goloso, è colui che non riesce a scoprire la relazione che esiste fra i sensi umani e l’anima umana. Il goloso ringrazia Dio per il cibo e le bevande, almeno qualche volta, ma non Lo ringrazia mai della capaci­tà che lo stesso Dio gli ha concesso di gu­starli. Porse come religiosi dovremmo ve­rificarci circa certe formule di rito che pro­nunciamo prima dei nostri pasti di Comu­nità e che dovrebbero esprimere gratitu­dine, ma, di fatto, non contengono nessun elemento di ringraziamento.

 

Dal punto di vista dei sette vizi capitali e del vuoto che essi mettono a nudo nell’uomo ci domandiamo: di che cosa, in pri­mo luogo, si ciba il goloso? Non è forse vero che egli cerca disperatamente di riem­pire il vuoto che si trova nel suo intimo? Non è forse questa la ragione per cui egli non riesce a godere di ciò che mangia e beve, di ciò che vede, sente e tocca?

 

Fondamentalmente l’uomo è un essere sociale, e il condividere con i suoi simili la mensa è un gesto preminentemente so­ciale. Ciò che stabilisce l’unione non è il cibo o la bevanda: nessuna di queste cose la esprime. Il godimento invece di ciò che mangiamo e beviamo, questa è una gioia che possiamo condividere, però la gioia è coesiva solo se godiamo delle persone con cui sediamo a mensa. Ciò avviene perché Dio ci ha dato il potere di godere delle cose anche in senso materiale e lo ha fatto perché trovassimo nel nostro intimo la gioia che deriva dallo stare insieme. Nel senso cristiano ogni piacere esterno va orientato alla gioia dello spirito. Un pia­cere è veramente umano quando serve ad unirci molto intimamente.

 

Il goloso danneggia gli altri perché con­suma le cose solo per se stesso. Negandosi la consapevolezza del piacere che deriva dalle cose che mangia o beve, egli si nega anche il godimento delle persone con cui mangia o beve. Il suo è un consumo egoista, e per ciò stesso è male, e non tanto perché è egoista, quanto perché l’io a cui tende è un io vuoto, un io senza Dio. Usando delle cose senza veramente assaporarne il piace­re, il goloso rivela agli altri la sua superfi­cialità e così facendo rende difficile, se non impossibile, un rapporto con gli altri.

 

Cari Fratelli, penso che dobbiamo ap­profondire l’analisi delle nostre mense co­munitarie. Non è forse vero che, o per evi­tare di cadere nell’edonismo o per avere accettato un certo giansenismo, abbiamo trasformato i nostri pranzi in un altro osta­colo al crescere insieme? Dio Padre ci ha donato la possibilità di godere in profon­dità della bellezza del mondo che Egli creò apposta per noi. Quando ci rifiutiamo di usufruire di questa possibilità perdiamo di vista la bontà stessa di Dio che vive in ciascuno dei Suoi doni.

 

Io penso che tutti noi, sia Fratelli che Superiori, dobbiamo accettare di introdurre nella nostra vita monastica tutti quei cam­biamenti che sono necessari per promuo­vere un’autentica comunione fraterna. Te­niamo in mente che il fine è la comunione, poi ciascuno di noi decida quali sono i cam­biamenti che si devono fare sia nel refet­torio che nelle sale di ricreazione.

 

Come dicono le nostre Costituzioni e i Decreti sui Rinnovamento della vita religio­sa, refettori e sale di ricreazione dovreb­bero essere così piacevoli da far sì che i Fratelli godano a starci.

 

 

Il vizio della pigrizia

 

L’amarci come il Figlio di Dio ci ama esige anche molta energia e riflessione. Pen­so che sia molto importante per noi religiosi esaminarci sul grado di pigrizia che mo­striamo nelle nostre relazioni interperso­nali. In superficie un religioso pigro può anche apparire preoccupato di cose margi­nali come stile di vita o ministero aposto­lico. Può sembrare energico, attivo e co­scienzioso nella sua attività apostolica, anzi ossessionato dal lavoro, immerso in esso sino all’esagerazione. In realtà ciò può co­stituire un’evasione da ciò che veramente importa nella sua vita personale e comuni­taria. A livello di spirito, è un pigro, che ignora le cose fondamentali nel Rinnova­mento religioso, l’ «unum necessarium », cioè il crescere insieme nella Comunità re­ligiosa.

 

Esaminando la pigrizia nella vita religio­sa, muoviamo dalla periferia delle cose, co­me abbiamo già fatto altrove. Facciamo una breve meditazione sulla pigrizia come vizio capitale. Essenzialmente essa consiste in un disinteresse passivo e collettivo per il bene interiore sia di se stesso che dell’altro o anche della comunità in cui si vive.

 

Sembrerebbe in se stesso un vizio inno­cuo, specialmente quando si ammanta di immensa energia o di efficienza negli affari dell’amministrazione, nell’organizzazione, o semplicemente nel risolvere qualche proble­ma umano. Un certo stile di vita rigido nella Comunità religiosa, una certa mentalità se­condo cui certe cose vanno fatte in certi tempi, una certa routine nelle attività reli­giose, come la Messa, la meditazione, le pratiche di pietà e così via, sono tutte cose che possono facilitare la pigrizia nelle no­stre file. Per un religioso pigro, tutte que­ste espressioni esterne dell’unione con Dio sono un sostituto eccellente per un’autentica interiorità- Invece di «essere» religiosi, ten­diamo a «fare» delle azioni. Mettiamo tutte le nostre energie nelle strutture esterne delle nostre attività, non nell’essere pre­senti gli uni agli altri, in certi luoghi sacri.

 

La pigrizia però non consiste solo nel dare una direzione errata all’energia uma­na. E’ qualche cosa di più che uno sfuggire alla realtà di un dovere attuale: è il rifiuto di quella Grazia Divina da cui ci deriva ap­punto la capacità di essere in comunione con Dio e di crescere insieme. Siccome però la pigrizia spirituale appare così poco peri­colosa, va considerata un vizio ancora più insidioso degli altri nella vita consacrata.

 

Nella mia esperienza come Fratello di San Giovanni di Dio, nelle mie visite alle Province, nella lettura delle sintesi delle ri­sposte ai miei sondaggi sono venuto un po’ alla volta convincendomi (non senza una certa sofferenza) che l’«unum necessarium» purtroppo è ciò che appunto difetta nella nostra vita. Pochissimi di noi, l’ho detto sopra, hanno fatto nella loro Comunità un’esperienza profonda di autentica carità. Le nostre Province funzionano più come enti autonomi che come gruppi di individui che partecipano della stessa vita divina. Ho l’impressione di trovarmi di fronte ad al­trettante isole quante sono le nostre Comu­nità.

 

Come è triste, per esempio, vedere come Fratelli così meravigliosi, che vivono, soffrono, si consumano nelle nostre opere mis­sionarie sparse un po’ in tutto il mondo, si sentano abbandonati dai loro Confratelli in patria!

 

La mancanza di interesse, sia individuale che collettivo, è sinonimo di inazione e l’inazione è sorgente di pigrizia. La pigrizia sta alla radice di ogni peccato di omissione. Tendiamo a confondere il torpore fisiolo­gico con la pigrizia, anche se sappiamo per­fettamente che l’inazione fisica può andare unita sia alla più intensa vitalità che alla pigrizia spirituale. Non mischiamo la su­perficie delle cose con il loro centro. Il problema che qui mi interessa è però l’op­posto: tendiamo cioè a confondere pigrizia dello spirito con una estrema vitalità este­riore. Come tutti i vizi capitali la pigrizia è una forte, apparentemente passiva, avver­sione al bene. Il religioso pigro non se la sente di impegnarsi seriamente a scoprire ciò che è buono dentro di lui o negli altri, e tanto meno a scoprire Dio sorgente di ogni bontà in tutti noi, e di ogni felicità.

 

Fratelli carissimi, non inganniamoci sul­la realtà della pigrizia spirituale che è in noi. Quando dobbiamo ammettere di non avere ancora scoperto noi stessi, o Dio al centro di noi stessi, non cerchiamo di ti­rare in ballo le scuse tradizionali o i raziocini propri del pigro: « Sono troppo preso dall’apostolato... non ho abbastanza cultu­ra... ho bisogno di qualche altro corso... ». Nostro Signore si fece uomo e predicò il Suo Vangelo di unione ai poveri, ai biso­gnosi, agli analfabeti di Israele. Per com­prendere la Parola di Dio e il Suo mes­saggio non occorrono né geni, né intellet­tuali, e nemmeno teologi. Occorre invece una grande semplicità di spirito, quello spi­rito di infanzia proprio dei primi seguaci di Gesù, che accettarono con cuore aperto l’energia, la vitalità e la Grazia che Gesù loro offriva. Non avevano alle spalle un Ordine Religioso che li sostenesse. Non ave­vano l’ispirazione di San Giovanni di Dio (che, fra parentesi, era un uomo semplice, anche se energico come loro). Non avevano i vantaggi di una moderna civiltà né due­mila anni di esperienza cristiana alle loro spalle. Eppure tutti, con grande energia, si addossarono la loro croce e Lo seguirono. Che tragedia vedere tanti nostri Confratelli che si trascinano in una vita passiva privi di ogni entusiasmo, senza una interiorità vissuta in pieno!

 

Come possiamo vedere l’ingordigia nei nostri refettori e nelle nostre sale di ricreazione, così possiamo vedere la pigrizia spi­rituale in molte nostre Cappelle e Oratori. I nostri religiosi pregano con indifferenza, sonnecchiano durante le celebrazioni euca­ristiche, prendono alla leggera la direzione spirituale. Si ascoltano poco e solo in su­perficie e, se accettano realtà interiori, lo fanno come spettatori davanti ad un video più che come persone che partecipano al dramma della vita insieme.

 

Che cosa dirò del pigro isolamento in cui si tengono i Fratelli estraniandosi dalle gioie e dai dolori del mondo in cui vivono? Che cosa del disinteresse collettivo per le ingiustizie, le ineguaglianze che ci sono nel mondo? Che cosa dirò dell’ignoranza che esiste sulle condizioni reali del « terzo mon­do », essa pure dovuta alla pigrizia? Che cosa dirò del fatto che molte sorgenti di arricchimento umano sono ignorate da noi? Che cosa della passività dei Fratelli davanti all’insegnamento vecchio e nuovo della nostra Chiesa? Della pigrizia con cui affron­tiamo lo studio del nostro carisma? Delle ore perse passivamente davanti alla TV? Della lettura trascurata delle Sacre Scrit­ture e dei mezzi tentativi che facciamo per scoprire il Verbo Incarnato che si rivela in queste stesse pagine?

 

L’orgoglioso si accontenta di vuoto e di povertà spirituale. Appunto perché orgoglio­so, il pigro si rifiuta di agire. Diamo uno sguardo alla nostra vuotaggine e alla nostra povertà, e poi diamone un altro alle cose che Dio ha preparato per noi, quando entre­remo nel Suo Regno.

Facciamo sì che il Rinnovamento del no­stro spirito ci liberi dalla pigrizia, e ci aiuti a realizzare quella « vita più abbondante » che Dio ci offre attraverso Suo Figlio.

 

 

A conclusione di questo lungo e com­plesso intervento vorrei suggerirvi, cari Fratelli, ciò che segue.

 

L’esperienza che abbiamo voluto fare di guardare in faccia al male e, in particolare ai sette vizi capitali, non è stata negativa. Anzi è stata positiva per due ragioni. In primo luogo credo che non sarebbe stato possibile affrontare un discorso sul Rinno­vamento senza parlare di questi problemi. Sono convinto che in un processo di Rin­novamento, ci deve comunque essere una dimensione purgativa. Guardandomi alla luce della mia peccaminosità, sono riuscito se non altro a scuotere dalle mie spalle il peso dell’autodelusione e della fantasia.

 

La seconda ragione per cui non giudico questa mia esperienza negativa, è che queste ombre mi hanno molto aiutato a mettere in luce le tinte che Dio ha usato per dipingere quel quadro che io chiamo me stesso. Quan­do una persona si riconosce peccatore, nella cruda realtà del peccato che si trova al cen­tro del suo essere, ogni timore, ogni ansietà di crescere insieme sparisce. Togliendomi la maschera della « impeccabilità », mi vedo così come veramente sono.

 

Appunto perché siamo peccatori, e pro­babilmente perché abbiamo peccato, Dio ci ha dato alcuni grandi doni. Siamo uomini di fede: con la fede possiamo guardarci negli occhi come ci guarda e vede il Figlio di Dio.

 

Siamo uomini di speranza: alla luce della speranza possiamo contemplare il nostro futuro come figli adulti di Dio.

Siamo uomini di amore: con l’amore pos­siamo arrivare a quella comunione che esi­ste fra il Padre e il Figlio.

Abbiamo anche ricevuto i doni della giu­stizia, della fortezza, della prudenza e della temperanza, e anche quattro punti forti, cioè i nostri Voti.

 

In questi doni, se li capiamo in profon­dità, possiamo pure trovare la forza di cui abbiamo bisogno, e la grazia necessaria per impegnarci a fondo nel processo di Rinno­vamento del nostro spirito e del nostro ca­risma che ci porterà ad amare Dio e i nostri Fratelli, con un amore simile a quello dei Figlio di Dio.

 

In una vita religiosa rinnovata, sia a li­vello personale che comunitario, Dio è l’uni­co Centro possibile dove individui e Istitu­zione, Comunità e Apostolato trovano la loro integrazione armonica. Individui e Co­munità sono aperti al Rinnovamento quan­do ciascuno riscopre Dio come Centro di tutto. Il Rinnovamento è rappresentato proprio da questo reintegrarsi di Spirito, Carisma e Fratellanza.

 

***

 

 

QUALCHE DILEMMA

 

 

Primo Dilemma

 

Apostolato Indivi­duale, «privato»:

il Membro è per­so per la Comu­nità e l’istituzione

 

 

Apostolato Istitu­zionale, struttura­to su vasta scala:

il Membro viene sacrificato alla Istituzione.

 

 

Pseudo Soluzione:

 

LA COMUNITA’

infatti i due punti Sopra accennati

sono « fuori strada »

 

 

 

 

Secondo Dilemma

 

Una Comunità fi­ne a se stessa:

l’interesse primo sono i suoi Mem­bri.

 

 

Una Comunità a­perta agli altri:

l’interesse primo è l’Apostolato.

 

 

Soluzione Reale:

 

UNA COMUNITA CENTRATA IN DIO

I due tipi di Comunità sopra accennati non hanno una au­tentica centralità.

 

 


Parte Seconda

 

I PUNTI FORTI CHE CI UNISCONO

 

 

« Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo: queste cose ha preparato Dio per coloro che lo amano » (I Cr. 2,9)

 

 

 

 

Capitolo Primo

 

LE VIRTU’ TEOLOGALI

 

 

Poiché Dio propone ad un uomo una meta o un dovere che trascendono le sue forze naturali, sarebbe un Dio crudele se, allo stesso tempo, non aumentasse le forze di quest’uomo, per metterlo in grado di rag­giungere questa meta e di compiere questo dovere.

 

Leggendo nell’Antico Testamento la sto­ria dell’uomo come tale, notiamo due cose: Dio fissa delle mete, Dio dà i mezzi per raggiungerle.

 

Guardiamo Abramo, per esempio: Dio gli chiede di mettersi in cammino. Sembra un ordine al di là delle sue capacità umane, ma Abramo si mette in cammino. Gli si propone una meta: l’Egitto. Non conosce il paese, tutto sembra incomprensibile! Ma la meta è raggiunta. San Paolo nella sua lettera ai Romani dice che Abramo ci riuscì per la sua fede.

 

 

La fede

 

Ecco dunque la seconda cosa che capita sempre: insieme ad una meta che appare irraggiungibile, Dio offre un potere quasi inconcepibile. Abramo era debole, davanti al sacrificio di Isacco che Yahweh gli chie­deva, il vecchio patriarca esitò. Ma gli ven­ne data la forza di superare la sua de­bolezza.

 

Tutto il Vecchio Testamento è pieno di questa esperienza. Tali debolezze umane sono così lampanti in queste pagine che si diede loro un nome incisivo: vizi capitali!

Coloro però che si aprirono al dono del­la fortezza di Dio riuscirono sempre a supe­rare le loro debolezze. A volte si trattava di doni individuali, come appunto nel caso di Abramo. Altre volte erano doni collettivi, come i vari patti che Dio fece con il Suo popolo. In ogni caso, barriere che sembra­vano insuperabili venivano abbattute. Così possiamo fare anche noi in una vera unio­ne: possiamo abbattere le barriere che ci dividono.

 

Dio ci propone sempre doveri impossi­bili e ci mette di fronte a barriere insor­montabili, ma non manca mai di aiutarci, in un modo che sfugge alla nostra intelli­genza umana.

 

Ci volle del tempo prima che gli Ebrei capissero ciò che Dio voleva da loro. Quando però il Messia arrivò, alcuni di loro com­presero, come appare dalla conversazione di Gesù col giovane dottore della legge.

 

«Maestro» chiese, « qual è il più grande Comandamento della legge »? Gli rispose: «amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente ». Questo è il più grande e il primo dei Comandamenti. E il secondo è simile al primo: «amerai il prossimo tuo come te stesso ». Da questi due Comanda­menti dipende tutta la legge e i profeti » (Matt. 22:36-40).

 

Ecco quindi la somma e la sostanza della Vecchia Legge. Ci volle la fede per com­prenderla e viverla.

 

Tuttavia noi abbiamo ricevuto una Nuo­va Legge e un Nuovo Comandamento. Non basta amare gli altri come amiamo noi stessi.

 

Il Comandamento di Cristo è che « ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amati ».

Per comprendere e vivere questo Co­mandamento ci vuole una fede ancora più profonda. Dio ci chiede di fare qualcosa che trascende il nostro potere umano per­ché, umanamente parlando, non possiamo amare come Dio ama. Dio ci ha dato quindi un nuovo tipo di fede, un dono soprannatu­rale che ci rende capaci di fare cose che, umanamente parlando, sono al di là della nostra capacità.

 

La fede è un dono che influisce sulla nostra mente e sul nostro cuore e ci aiuta a capire questo Nuovo Comandamento. Con la fede riusciamo a vedere che cosa significa amare gli altri come Cristo ci ama, ed es­sere uniti tra di noi come il Padre e il Figlio sono uniti. La fede opera in due maniere: da una parte ci aiuta a scoprire le barriere che ci dividono, a comprendere la nostra peccaminosità e i sette vizi capitali che ne sono parte integrante. Dall’altra, la fede ci aiuta a vedere che siamo stati redenti e che perciò siamo Figli di Dio. Il peccato, come Cristo lo descrive, non sarà mai capito a fondo se non alla luce della fede. Ci vuole la fede, inoltre, per capire l’amore come è insegnato e vissuto da Gesù Cristo. Troppo si parla di amore fraterno, di amore comu­nitario, ma troppe volte sono espressioni di comando o di tranquillizzante convivenza sociale: dobbiamo invece convincerci che l’amore, trova le sue radici in un vero processo di fede.

Man mano che ci lasceremo coinvolgere nel processo di Rinnovamento dovremo in­cominciare proprio dalla nostra fede. E’ la fede che deve essere vivificata. E’ la fede che dobbiamo imparare ad usare.

 

Per molti anni la nostra fede ci è servita per accettare gli insegnamenti del Vangelo e della Chiesa. Cosa ottima, ma oggi non più sufficiente. Mentre cerchiamo di rinno­vare la nostra fede dobbiamo imparare ad usarla per illuminare le profondità del no­stro io, e le profondità dell’io dei nostri Fratelli.

 

La fede guida la mente del Fratello al cuore delle cose. La fede ravviva attraverso il Rinnovamento, aiuta il Fratello a scopri­re la bellezza interiore e la bontà che è in se stesso e negli altri.

 

Quando un Fratello si disprezza, o di­sprezza un suo Fratello, non esercita sicu­ramente una fede operativa. Quando un Fratello non riesce a vedere quella grande bontà che è in lui, che attira perfino Dio, non esercita sicuramente una fede opera­tiva. Quando non riusciamo ad accettare il fatto che Cristo amava i peccatori, siamo schiavi dell’orgoglio, e non c’è fede in noi.

 

La fede non spazza via la nostra pecca­minosità e il nostro orgoglio, ma vi getta luce, come getta luce sulla bellezza inte­riore.

Con la fede vediamo che il male dentro di noi è stato sconfitto, e che il peccato, lungi dall’essere una forza, è invece una de­bolezza.

 

Alla luce della fede constatiamo che i malvagi, gli orgogliosi, i gelosi o gli ira­condi riescono a fare molte cose, ma com­prendiamo anche che queste cose sono cat­tive. Il male peggiore è la loro divisione.

 

E’ ancora la fede che ci aiuta ad am­mettere che siamo deboli e che tutti i mal­vagi sono deboli. Alla fine essi falliranno, perché cercando di impedire il processo di Rinnovamento, essi manifestano la loro de­bolezza e qualche volta la loro cattiveria intrisa di uno scetticismo e di una abulia che ferisce l’impegno dei Fratelli ed è sin­tomo di una fede che non opera.

 

La nostra forza consiste nel fatto che, attraverso la fede, riusciamo a vedere non solo il male che c’è negli altri, ma anche il bene. E vediamo che la bontà riesce sem­pre a superare il male, così come la Resur­rezione superò la Crocefissione di Nostro Signore. Proviamo a sognare una Comunità ospedaliera rinnovata profondamente nella sua fede, operante nella fede, e vedremo d’incanto che molti problemi che tormen­tano l’ordine (mantenere la proprietà delle strutture, operare in opere piccole e gran­di, avere Comunità tradizionali o Comu­nità sperimentali, ecc.) troverebbero pronte ed illuminate soluzioni.

 

 

La speranza

 

La speranza è un dono soprannaturale che ci aiuta a vedere o a comprendere i passi che dobbiamo fare sul cammino del Rinnovamento.

 

La fede illumina la meta della vera unio­ne, la speranza, la strada da seguire. Se ci guardiamo come persone che crescono in­sieme, in una comunione simile a quella del Padre col Figlio, siamo uomini di speranza.

 

La speranza illumina sia il nostro io che gli altri. Illumina il nostro io quando pos­siamo dire di crescere verso la pienezza del Figlio di Dio. Illumina l’altro quando ve­diamo che anche l’altro cresce nella stessa direzione.

 

Si parla tanto oggi di crescita e di svi­luppo della persona! Purtroppo, però, mol­te di queste idee sono nate dalla « psico­logia della crescita» e non hanno la pro­fondità di una visione veramente cristiana.

 

Leggiamo molti libri sulla teologia della speranza ma di rado questi ci aiutano a centrare la nostra attenzione sulla mutua unione, che è l’oggetto proprio della virtù della speranza.

 

La speranza nasce dalla schiavitù. Quan­do capisco di avere in me il potere di amare come Dio ama, ma non riesco a progredire nel bene, nell’autentico vivere in unione, nell’amore sacrificante per i Confratelli e per i fratelli sofferenti che devo servire, vuol dire che la mia speranza non è opera­tiva. Per mezzo della speranza scopro il significato della solitudine, dell’isolamento dove non posso né vedere, né essere visto, né ascoltare, né essere ascoltato. Per mezzo della speranza scopro di essere prigioniero, isolato, solo. Quando esperimento questo mio isolamento, e divento consapevole che esso è parte di me stesso, allora incomincio a sperare.

 

Io, che vi parlo, sono oggi il Generale dell’Ordine: ebbene, quando mi guardo in­torno mi domando se ci sia qualcuno di voi che veramente possa amarmi, o se, real­mente, io ami qualcuno. Mi vedo come un perseguitato da molte paure. So che queste paure hanno la loro radice in me stesso, non nella mia relazione con i Fratelli. Non dovrebbe esserci timore alcuno in me nei confronti di quelli che si oppongono al pro­getto di Rinnovamento o ad altri programmi pure proclamati dalle Costituzioni o voluti dai Capitoli, perché questa opposizione si fonda sul male, e questo è debolezza. Certa­mente non dovrei temere niente da parte di quei Confratelli che sostengono il Rinno­vamento del nostro Ordine perché so di po­ter contare sul loro aiuto. La paura e l’an­sietà derivano dalla mia inclinazione al pec­cato e dal mio orgoglio.

 

Quando riesco a capire questo nella fede, allora capisco anche di avere bisogno del dono della speranza.

 

Vorrei che voi, che i Provinciali e i Con­fratelli tutti si esaminassero alla luce della speranza. In questa ricerca di forza inte­riore troveranno spesso nei loro timori la virtù della speranza di cui abbisognano per liberare sé stessi e gli altri dalla cattività.

 

La speranza è liberazione dalle tenebre e da tutte quelle distrazioni che nelle tene­bre si ritrovano. Se non riesco a vedermi come Figlio di Dio, vivo nelle tenebre. In queste tenebre inciampo, vado a tentoni cer­cando qualche cosa o qualcuno su cui ap­poggiarmi. Nelle tenebre costruisco un im­pero per me stesso e una muraglia che mi protegga.

 

Penso di essere al sicuro in questa for­tezza, cioè nel controllo che esercito sopra gli altri, nelle regole che osservo, nelle tra­dizioni con cui mi identifico.

 

Ma tutte queste cose rappresentano la mancanza di fiducia, non la speranza, mi dicono che devo imparare a far uso della luce della mia speranza per illuminare le tenebre in cui mi trovo.

 

Quando la libertà appare impossibile, allora nasce la speranza. Quando mi pare di stare crollando, allora la speranza mi so­stiene. Quando non vedo la luce al di là del tunnel della solitudine, allora la spe­ranza porta la luce. Quando mi riconcilio all’idea di essere una creatura inutile, al­lora la speranza mi rivela i miei valori. Quando confondo le sbarre della prigione che è la mia vita, con quelle cose che sole mi possono dare gioia e felicità, allora la speranza illumina le vere sorgenti della rea­lizzazione umana.

 

E’ nella disperazione che imparo a spe­rare.

 

Essere figlio di Dio vuol dire trascen­dere ciò che mi ostacola. Se questo ostacolo è una persona, allora la speranza mi rivela un altro. Se questo è una Comunità o una Provincia, allora la speranza mi induce ad occuparmi di altre Comunità, di altre Pro­vince. Se sono ostacolato dalla mia nazio­nalità, dalle mie origini culturali, allora la speranza mia libera da questi limiti. Per mezzo della speranza mi vedo parte di tutta la famiglia di Dio, e riesco a trovarmi bene in qualsiasi situazione.

 

Dio mi dà il potere di farlo.

 

La speranza abbraccia il pluralismo e la disperazione non trova spazio. La speranza si entusiasma alla molteplicità di forme che il nostro spirito e il nostro carisma pos­sono assumere, la disperazione vuole limi­tarli ad una sola. Quanto è drammatica­mente attuale ed urgente questo Rinnova­mento della nostra speranza se vogliamo sopravvivere nella storia e nell’amore!

 

Quando in noi esiste la virtù della spe­ranza, ed essa è attiva, godiamo di una gran­de pace con noi stessi e con il mondo in cui viviamo.

Siamo pieni di fiducia, sentiamo una certa sicurezza di noi stessi. La speranza non è violenta, non esercita pressione, non si impone a noi stessi o agli altri. La speranza non è piena di inganni, di «poli­tica» come invece è la disperazione.

 

Se ho speranza posso anche rischiare di essere onesto e sincero. La speranza è l’esperienza di Dio nei doni che Egli mi ha dato perché fossi libero.

 

Siccome la speranza ha a che fare con il movimento delle cose, mi rende consa­pevole del valore di questo movimento e di questa crescita. La libertà è movimento. E’ un muoversi dall’isolamento alla com­pagnia, è quella virtù che mi rende com­prensibile la libertà. La libertà di cui sto parlando è la libertà dei figli di Dio, la li­bertà di amare come Dio ama e di essere uniti fra di noi come il Padre e il Figlio sono uniti.

 

Quando parliamo di libertà nel vivere religioso verifichiamo se questa libertà è generata e si proietta nella speranza: se ciò non è, senza dubbio possiamo pensare di essere su una strada sbagliata che non ci porta alla luce.

 

 

La carità

 

La carità, o meglio l’amore, è quel po­tere che abbiamo di essere uniti tra di noi nel centro stesso del nostro essere. Per il cristiano non c’è amore senza fede e senza speranza, così come non esiste amore senza le quattro virtù cardinali. Come ho già detto parlando del peccato, i vizi capitali oscurano la bontà e la bellezza dell’altro, rendendolo brutto e ripugnante. La virtù soprannaturale dell’amore è il potere e il dono che ho in me di rispondere in modo sensibile e appropriato all’altro. Il frutto dell’amore, basato sulla fede e la speranza, è l’unione. Per mezzo della fede vedo la bellezza interiore degli altri, per mezzo del­la speranza cerco di unirmi a loro, per mezzo della carità realizzo questa unione.

 

Nelle Comunità religiose l’opposto del­l’amore non è l’odio, ma il controllo di sé e degli altri. Quando parliamo di amore fraterno e reprimiamo ogni impulso gene­roso o creativo nell’amore e giudichiamo questi impulsi dei Fratelli con astio (magari perché turbano le nostre abitudini) o con maligna critica, ci poniamo contro l’amore.

 

A parte il fatto che spesso ci amiamo poco, il nostro peccato maggiore, come reli­giosi, è quello di cercare di controllare i nostri Fratelli. « Io sono la via, la verità e la vita ». Inoltre « la verità ci rende liberi ».

 

Coloro che vogliono diminuire questa « maggiore abbondanza di vita », o limitarla in qualsiasi maniera, non amano.

Nostro Signore diede la Sua vita perché potessimo amarci l’un l’altro « in abbon­danza ».

 

Quelli fra noi che passano la loro vita evitando il contatto intimo con i loro Fra­telli sono quelli che non amano come il Figlio di Dio ama.

 

Egli ci ha rivelato i segreti più intimi del Suo Cuore e quelli del Padre. Se cu­stodiamo i nostri «segreti» e ci proteggia­mo da qualsiasi intrusione, non possiamo certamente pretendere di essere suoi imi­tatori.

 

Noi amiamo i nostri Fratelli quando ciò che diciamo intende rivelare la bontà e la bellezza di un Fratello ad un altro Fratello. Tutte le volte che abbiamo diminuito la stima di un Fratello davanti ad un altro Fratello o agli occhi di un Superiore, ci dobbiamo chiedere in tutta onestà se questo è stato il frutto della virtù teologale dell’Amore o invece il frutto della nostra peccaminosità.

 

L’amore non diminuisce mai l’altro. L’amore costruisce, esalta l’altro, lo rende attraente, perché si costruisca l’unità. Il bisogno di controllare, di distruggere l’al­tro, lo riduce alla posizione di servo o di schiavo.

 

Se una cosa è chiara nel nostro Ordine oggi, all’inizio di questo processo di Rinno­vamento, è che dappertutto, a tutti i livelli della nostra vita, esiste tanta solitudine.

 

Il Vaticano II ci ha insegnato che siamo esseri sociali nel cuore del nostro essere. Ci ha insegnato che la « vita è un incontro» e che se vogliamo essere «persone più com­plete, abbiamo bisogno di una unione più intima ».

 

La solitudine è l’incapacità di stabilire una relazione interiore con gli altri.

 

La persona sola dice che non riesce a sentire, non riesce a capire: non riesce vera­mente a comunicare con gli altri. Allo stesso tempo sottintende che sono gli altri che «non sentono” non capiscono, non vogliono comunicare con lui. Non sono questi i di­scorsi più frequenti tra superiori e sudditi, tra confratelli, quando esaminano il loro vivere? Dobbiamo reagire con un vero Rin­novamento della nostra carità fraterna, del nostro vivere consacrato e del nostro essere Comunità.

Come esseri umani non possiamo amarci senza profondi sentimenti. Quando repri­miamo la tenerezza, la gentilezza e la com­passione non c’è amore umano e certamente non c’è amore divino.

 

Basta guardare a Gesù nel Vangelo per comprendere la sua tenerezza, la sua sensi­bilità, la sua compassione verso tutti coloro che incontrava.

 

E’ così l’amore che noi esperimentiamo nelle nostre Comunità? Quanti di noi sono pronti a dare la vita per i Fratelli, perché il nostro amore reciproco sia sempre più pieno? Dedichiamo la nostra stessa vita ai malati, ma raramente diamo la nostra vita per i nostri Fratelli. Ma Cristo fece pro­prio questo! Rinnoviamola e, se necessario, rivoluzioniamola la nostra vita comunitaria, ma rendiamola vera vita di amore, di gene­roso slancio affettivo, se non vogliamo in­contrare le tenebre.

 

Per assicurarci che il nostro Rinnova­mento non diventi una realizzazione nella vita futura, vorrei citare qualche frase trat­ta dall’epistola di Paolo ai Corinti: «Queste sono dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità: ma di tutte la più grande è la carità” (I Cor. 13:13).

Questo «dunque» che San Paolo usa, si riferisce al presente, perciò se vogliamo essere uniti adesso dobbiamo avere sia la fede, che la speranza, che la carità. Più tardi, quando le « profezie » scompariranno... quando la conoscenza non esisterà più... la carità rimarrà (cfr. idem v. 8).

 

Su questa terra la nostra Comunità è Comunità di fede, speranza e amore. In cielo quando vedremo Dio faccia a faccia, e l’un l’altro come veramente siamo, cuore a cuore, anima ad anima, non avremo più bisogno di fede e di speranza. « Solo la ca­rità non avrà fine ».

 

Di conseguenza il nostro Rinnovamento, nel tempo, dipende dalla nostra capacità di approfondire la nostra visione di fede nei nostri rapporti interpersonali, di ravvivare la nostra speranza nella nostra crescita in­sieme, e nell’approfondire la nostra carità mentre un po’ alla volta incominciamo a sperimentare quella unione che Dio deside­ra per noi.

 

Stiamo attenti solo, Fratelli miei, a non romanticizzare questo amore, rendendolo fine a se stesso.

Un religioso maturo non va alla ricerca del sentimento, ma di qualcuno verso il quale può sperimentare dei sentimenti.

 

Un religioso maturo non va alla ricerca di comprensione, ma di qualcuno che può essere l’oggetto della sua comprensione.

 

La nostra fede ci aiuta a vedere i Fratelli come Dio li vede.

 

La nostra speranza ci aiuta a crescere insieme con confidente fiducia. Ci spinge gli uni verso gli altri, ci riavvicina. Non dovremmo guardare alla luce della speran­za, ma a ciò che è illuminato da questa speranza.

 

Infine, il dono dell’amore ci aiuta a fare comunione con gli altri, non con l’amore in se stesso.

 

Non può esserci amore in questo mondo senza sacrificio.

Per troppo tempo abbiamo visto il sa­crificio come pena e sofferenza. Il sacri­ficio per noi significava « dare » qualcosa per realizzare l’unione. In verità, la parola sacrificio significa « santificare ». In latino la parola « sacer » significa « sacro », « san­to », e la parola « faccio » significa « fare ». Una cosa è santa o sacra per me quando vi scorgo la presenza di Dio. Il religioso è colui che è consapevole della presenza di Dio in tutte le cose, perché Dio è dapper­tutto. Perciò quando dico che non esiste amore profondo senza sacrificio, intendo dire che non potremo mai essere veramente una cosa sola se non ci convinciamo della presenza di Dio in ciascuno di noi.

 

«Trovare Dio in tutte le cose », non è lo stesso che trovare Dio in ciascuno di noi. Dio è presente in tutte le cose che esistono nell’Universo, ma la sua presenza, è quella del Creatore. Dio è pure presente in cia­scuno di noi, come un Padre: è questa pre­senza «paterna» che noi dobbiamo scopri­re negli altri. Lo facciamo perché vediamo tutti alla luce della virtù teologale della Carità. E’ la virtù dell’Amore che illumina la nostra figliolanza divina. Quando vedia­mo in un Fratello un Figlio di Dio, capiamo che tutto il resto passa in seconda linea.

 

La cosa essenziale che va scoperta nel­l’altro è appunto questo essere figli di Dio, che è infinitamente più importante della sua sapienza o conoscenza, del suo dono di profezia o di qualsiasi altro carisma di cui parla Paolo.

 

Un uomo è figlio di Dio solo nel cuore del suo essere: tutto il resto conta poco nella nostra relazione con Lui.

 

Questa è la ragione per cui l’amarci gli uni gli altri come figli di Dio è l’ «unum necessarium». Se siamo figli di Dio, siamo una cosa sola, e tutto il resto è di poco rilievo.

 

Rinnovamento significa renderci consa­pevoli, ogni giorno, di questa realtà e vi­vere insieme agli altri in modo coerente.

 

La fede, la speranza, l’amore, sono doni potenti.

 

Tuttavia, data la nostra debolezza, la nostra inclinazione al peccato, abbiamo bi­sogno di altri doni se vogliamo obbedire alla volontà di Dio. Dio ci ha ordinato di amarci come ama Lui: quindi dobbiamo con­fidare che ci darà anche altri doni.

 


 

Capitolo Secondo

 

LE VIRTU’ MORALI

 

 

 

Quando pensiamo all’uomo morale non dobbiamo necessariamente immaginare un uomo che osserva tutte le leggi e fa tutto il suo dovere. Se restringiamo il termine « morale» a ciò che è obbligatorio, lo pri­viamo di molto del suo significato. Abbiamo stabilito una relazione fra l’uomo e la legge piuttosto che fra l’uomo e Dio o il suo Fratello.

 

Amare un Fratello perché si ha il do­vere di farlo, è una cosa completamente di­versa dall’amarlo perché lo si considera de­gno di amore. La luce della fede, della spe­ranza e della carità ci fanno scoprire cose come queste, ma non ci garantiscono, di conseguenza, il desiderio di comunione con gli altri.

 

Studiando le Virtù Morali è importan­tissimo riflettere nella preghiera a ciò che dice Paolo nella lettera ai Romani.

 

Come la fede, la speranza e la carità, le Virtù Morali sono principi o radici da  cui deriva la nostra vita di unione con gli altri. Viste come principi, piuttosto che co­me obblighi, le Virtù Morali ci aiutano a darci una direzione e ad andare incontro agli altri.

 

La vita che sgorga da queste radici è una vita d’amore. Questa vita d’amore è «morale» quando la nostra risposta agli altri come figli di Dio è profonda, appro­priata e adeguata.

 

Nell’insegnamento di San Paolo, un uomo è considerato morale quando è aperto al­l’altro nella maniera giusta, cioè quando la sua risposta è illuminata dalla luce della fede, della speranza e dell’amore, e quando il suo desiderio di unione con gli altri è guidato dalle Virtù Morali. Quando ci sfor­ziamo di diventare una cosa sola con gli altri, come il Padre e il Figlio sono una cosa sola, tale sforzo è morale se i nostri rapporti sono ispirati ai doni della pru­denza, della giustizia, della fortezza e della temperanza.

 

 

La prudenza

 

Per essere figli di Dio dobbiamo essere prudenti. Dal momento che Dio ci ha chie­sto di essere suoi figli e di ricevere il suo Spirito, Egli ci deve dare anche il potere e la capacità di accettare questi doni. Questo potere soprannaturale, è una virtù infu­saci nel Battesimo.

 

Molte cose terribili sono accadute alla virtù della Prudenza col passare degli anni. E’ diventata per molti una virtù superfi­ciale. Come la fede, quindi, anche la pru­denza ha bisogno di un Rinnovamento. L’uomo prudente, come lo si intende oggi, è una persona cauta piuttosto che una per­sona decisa. Si preoccupa costantemente di ciò che gli altri diranno o penseranno. E’ inclinato a calcolare anche in modo astuto, come si fa in politica. Si tiene sempre in guardia, cercando di proteggersi, non si espone e non rivela mai ciò che sta nel suo intimo. Nessuno sa esattamente, dove quest’uomo stia. Ha dimenticato che cosa sia una vita governata da un principio. Rap­presenta la pienezza della debolezza umana, e da questa debolezza egli cerca di con­trollare tutto e tutti, per la sua soddisfa­zione e per i suoi interessi personali.

 

Abbiamo anche noi tanti di questi «prudenti» nel nostro Ordine. Sono abbastanza intelligenti da vedere le debolezze degli altri e, attraverso queste debolezze, essi cercano di controllare i loro simili e di manipolarli.

 

Se per esempio un Superiore è così de­bole da prestarsi al pettegolezzo, da ascol­tare chi calunnia e parla male degli altri, questo Superiore viene facilmente usato e « controllato » dai cosiddetti prudenti. Se un superiore si lascia intimorire da sottili minacce, magari da ricatti velati, allora i cosiddetti prudenti riescono a tenerlo sotto controllo. I cosiddetti prudenti fanno uso di «suggestioni», di allusioni e di mezze verità. La loro prudenza consiste essenzial­mente nella loro capacità di far apparire queste mezze verità come plausibili. Mani­polano gli altri e ne controllano il cervello, facendo loro vedere solo parte della verità, in modo tale da cancellarne la verità in­teriore.

 

Solo la pienezza della verità ci può li­berare.

 

Quando siamo obbligati a usare mezze verità, rischiamo di lasciarci controllare dai cosiddetti «prudenti». E allora diventiamo Superiori che non solo permettono, ma direi aiutano questi «prudenti» a control­lare gli altri facendo uso dell’autorità.

 

La prudenza soprannaturale, però, è tut­t’altra cosa. E’ un dono meraviglioso che ci rende capaci di prendere la giusta deci­sione circa un passo da fare, se vogliamo rimanere liberi. La nostra fede ci insegna che, come figli di Dio, la nostra meta è di vivere in comunione limpida con gli altri. La prudenza soprannaturale ci detta ciò che dobbiamo fare per raggiungere questa meta. Se la meta è l’unione con gli altri e con Dio, l’azione giusta è quella ispirata dalla comprensione e dall’amore. Un Fratello ve­ramente prudente sarà pronto a correre tutti i rischi necessari per capire, amare e aiutare un altro Fratello. Sarà pronto anche a rischiare per essere capito e amato dal Fratello.

 

Nostro Signore, quando decise di «ri­schiare» di amarci, fu veramente prudente. Sapeva che in cambio l’avremmo crocefis­so! E lo abbiamo crocefisso. Tuttavia, nella sua prudenza, Egli sapeva che la morte era il modo migliore per darci «una vita più abbondante ».

 

Il paradosso del Cristianesimo è questo: solo la morte può distruggere la morte! Questo paradosso è anche il mistero cen­trale del Cristianesimo. Questo mistero, noi lo capiamo solo attraverso una fede rinno­vata. E, solamente attraverso una prudenza rinnovata riusciremo a vivere e ad agire in questa maniera.

 

L’« agere » guidato dalla prudenza avvie­ne nel nostro intimo. Quando per esempio io capisco e comprendo un Fratello, ciò av­viene nel mio intimo. Quando amo un Fra­tello, ciò avviene nel mio intimo.

 

Ecco perché sono così preoccupato di andare al cuore delle cose, perché è là che ogni comprensione e amore avviene. Il mondo sembra impazzito nello sforzo di mettersi in contatto con il sentimento ». Il mondo cristiano ne è seriamente influen­zato, anche se un cristiano dovrebbe sa­pere che ciò che importa è mettersi in con­tatto con il suo io da cui derivano tutti i sentimenti. La prudenza governa e dirige queste azioni interiori dell’Io verso un fine ultimo. Questo fine ultimo è l’unione si­mile a quella che esiste fra il Padre e il Figlio. La prudenza dirige tutte le energie della libera volontà a quelle azioni che sono indicate a raggiungere questo scopo. Quan­do ci amiamo, allora usiamo la virtù della prudenza. Tanti errori e tante omissioni si realizzano in nome di una falsa prudenza che ci distoglie dalla verità e perciò dalla vera libertà.

 

La vera prudenza, rinnovata nelle sue fondamenta ispiratrici, sarà il lievito del no­stro vivere comune: una falsa prudenza distruggerà le nostre Comunità ed i rapporti tra i Superiori ed i loro Confratelli, creando quelle spaccature che minano la reciproca fiducia.

 

 

La giustizia

 

Ad un uomo, per sua natura sociale, non sono sufficienti una comprensione ed un amore che rimangano nel suo intimo. Que­sto è maggiormente vero per un cristiano.

 

Il cristiano deve sforzarsi perché la sua comprensione e il suo amore giungano al cuore del Fratello.

 

Effettuare ciò è compito della giustizia. Dio è giustizia, così come è amore. Per giu­stizia Dio inviò suo Figlio a salvarci, per giustizia questo suo Figlio morì per noi. In questa morte di Cristo per l’umanità c’era una esigenza fondamentale di giustizia.

 

Era la risposta di Dio alla nostra bontà, un disegno divino per giungere fino a noi.

 

Morire per un altro: ecco il modo mi­gliore che Dio scoprì per penetrare nelle tenebre in cui, da uomini quali siamo, noi viviamo. Naturalmente, uccidendo suo fi­glio, abbiamo peccato, ma questo suo figlio, morendo per noi, era giusto.

 

Nessun Fratello agisce giustamente quan­do cerca di distruggere o di diminuire il suo Fratello davanti agli altri. Quel Fra­tello, però, da parte sua, agisce bene accet­tando questa diminuzione.

Questa è giustizia perché, anche se mi­nacciati da distruzione e da calunnie, per mezzo dell’amore esteso ai nostri nemici noi rendiamo la nostra carità credibile, e riusciamo a convincere gli altri.

 

Quindi, fondamentalmente, il giusto non rende male per male, ma risponde al male con la vita e con l’amore. Ecco le due com­ponenti fondamentali della nostra comunio­ne reciproca. Per mezzo di questo dono noi riusciamo a scoprire altri modi di convin­cere i nostri Fratelli del nostro amore, altri modi per penetrare nel loro cuore e nella loro mente. Per esempio, quando siamo di­sinteressati e abbandoniamo a loro stessi i nostri confratelli missionari, addossando impegno e responsabilità ad altri, non sia­mo giusti nei loro confronti.

 

Quando una Provincia — pur avendo i suoi problemi — non si preoccupa mai di un’altra Provincia, non si preoccupa del­l’Ordine, non ne vive i problemi di cre­scita o i momenti di tensione, non possia­mo parlare certo di giustizia.

 

Quando un gruppo etnico evita o snobba un altro gruppo etnico, quando non si cerca di penetrare nei Fratelli attraverso l’amore, accettandoli in tutte le loro componenti umane e sociali, non possiamo parlare di giustizia.

 

Una Provincia o una Comunità è giusta quando esterna il suo amore e il suo desi­derio di unione con un’altra Provincia o con un’altra Comunità, e non a sentimenti, ma nella realtà operativa.

 

La giustizia è un dono che ci facilita l’apertura ai Fratelli, e la riempie di gioia. La giustizia è in noi attraverso la presenza dello Spirito Santo: noi siamo certi della sua presenza quando diventiamo consape­voli dei suoi doni e dei suoi frutti. La Nuo­va Legge è scritta nei nostri cuori: è una legge di libertà, che ci scarica dei pesi della Vecchia Legge per darci la gioia della Nuova.

 

La libertà è amore, amore in vista del­l’unione con i Fratelli. Non c’è maggiore gioia che osservare dei Fratelli che vivono in comunione fra di loro. Siamo giusti verso gli altri quando partecipiamo loro le no­stre ricchezze interiori, la nostra vita so­prannaturale! La giustizia senza l’amore è vuota. L’amore senza giustizia è sterile, chiuso in sé stesso e inutile. Proiettarci nella ricerca di una metodologia di apostola­to, nello studio della Pastorale per le Voca­zioni o della Pastorale Ospedaliera, e non essere in ogni dimensione della giustizia, significa porci sulla strada dell’insuccesso e, qualche volta, sulla strada del tradimento.

 

 

La temperanza

 

Quando il Padre ci fece redimere, per renderci suoi figli, conosceva perfettamente quelle nostre debolezze che ci avrebbero reso difficile amare come i suoi figli do­vrebbero amare, e formare una cosa sola come Lui e il Figlio suo sono una cosa sola. Dio non intendeva rendere questa Nuova Legge un peso come lo era stata l’Antica. Desiderava che fosse qualche cosa di facile e di dolce da osservarsi.

 

Perché però i suoi figli possano davvero essere liberi, Dio deve arricchirli con certi doni che li aiutino a superare le loro debo­lezze innate. Uno di questi doni sopranna­turali è la temperanza. Come la giustizia, la temperanza ha pure bisogno di essere rinnovata e rivitalizzata dentro di noi. Non ci sarà mai un vero Rinnovamento dello spi­rito e del nostro carisma senza un Rinno­vamento della virtù della temperanza.

 

La temperanza è un dono che ci rende possibile, anzi facile e gioioso, controllare le tendenze a eccedere che sono radicate nella nostra umana debolezza. A volte le nostre passioni ci inclinano ad azioni che non sono né buone né adatte.

 

La nostra sensibilità verso gli altri trova le sue radici nella nostra fede e nel nostro amore. Quando questa sensibilità è gover­nata dalla passione, invece che dalla fede, occorre controllare questa passione, ma in modo calmo e gioioso. Ecco il compito della temperanza. L’amore umano senza una certa passione è un inganno.

 

Nostro Signore ci amò appassionatamen­te. Il suo profondo amore per noi era così forte che morì per noi. Questa fu temperan­za. La sua morte non fu un eccesso radicato nella debolezza, ma un’abbondanza d’amore radicata nella forza.

 

La temperanza modera l’amore secondo le regole della fede. Non si preoccupa tanto del controllo delle passioni che noi abbiamo, e che sono radicate nei sette vizi capitali, ma dei punti forti che sono radicati nella presenza dello Spirito in noi. Per mezzo della temperanza scopriamo i limiti di que­sto amore e di questa giustizia.

 

Questi limiti sono quelli che Gesù stesso ci mostrò sulla croce. Noi siamo uomini di temperanza quando viviamo totalmente gli uni per gli altri, anche dando la nostra vita per gli altri.

 

La temperanza è diventata ormai una virtù superficiale della nostra cultura seco­larizzata. La usiamo per controllare la no­stra debolezza, non i nostri punti forti.

 

Essa può renderci consapevoli del pec­cato come faceva la Vecchia Legge.

Lo insegna San Paolo nella lettera ai Ro­mani.

 

La temperanza soprannaturale, invece, ci rende consapevoli della molteplicità del­le nostre buone azioni, che ci permettono di vivere gli uni per gli altri e gli uni con gli altri. La temperanza non si cura tanto degli ostacoli all’amore e all’unione che esi­stono al di fuori di noi stessi, quanto in­vece di quei doni dello Spirito che noi pos­sediamo e che desideriamo condividere con gli altri (Gal. 5,22).

 

 

La fortezza

 

Come la temperanza, la fortezza inco­mincia nella debolezza e si perfeziona nella pienezza della vita dello Spirito che è in noi. Qualche volta le nostre passioni ci fanno allontanare da ciò che ci suggerisce la fede. Allora sperimentiamo la paura. Quando per esempio incontriamo ostacoli, cerchiamo di evitarli al punto da rimanere paralizzati. Parlando della prudenza abbiamo già di­scusso questi ostacoli. Essi sono radicati nella nostra debolezza e nel peccato. Tocca alla fortezza illuminare la debolezza del male che ci si oppone. Quando capiamo che il male è debolezza, allora i nostri timori spariscono, e noi riusciamo ad agire retta­mente secondo la fede.

 

Qualcuno di noi, Fratelli carissimi, può avvertire paura, esitazioni, e anche un senso di minaccia davanti alle richieste di Rinno­vamento. Molti dei nostri Fratelli sono sog­getti alle stesse passioni negative.

 

Così molti Fratelli hanno paura di con­dividere il loro amore con gli altri, e perciò necessitano un Rinnovamento del dono del­la giustizia nel loro cuore; e molti altri sono spaventati dagli ostacoli che incon­trano da parte di coloro che rigettano que­sto amore.

 

La loro fortezza si costruisce sulla vita­lità della vita intima con lo Spirito. Nel­l’agonia nel Gethsemani, Gesù ci diede un esempio di questa fortezza. Pregò per­ché la croce gli fosse tolta: non era certo che ci fossero persone pronte ad accettare questo tipo di amore! Ma poi disse: «Non la mia, ma la Tua volontà sia fatta». Per­ché scoprì che la volontà del Padre era che tutti gli uomini ricevessero questo amore.

 

Ci fu qualcosa al di là della debolezza in questa accettazione della volontà del Padre?

 

L’agonia e la crocefissione erano ciò che il Padre aveva ordinato perché si compisse la sua volontà. L’unico ostacolo che restava nell’orto dell’agonia era la crocefissione.

 

Per mezzo di essa tutti gli uomini sa­rebbero stati convinti dell’amore del Padre per loro, e della bontà della sua decisione di amarli.

 

Quindi il problema sulla croce era: «Riu­scirò a superare l’ultimo ostacolo che è la morte»? E la risposta del Padre fu un chiaro sì. « Ho voluto che così fosse ». La domanda che ci poniamo noi, di fronte agli ostacoli che troviamo nei nostri Fratelli e nelle Comunità, è la stessa. La fortezza, come avvenne a Cristo sulla croce, ci rivela che i nostri Fratelli hanno la capacità di accettare il nostro amore. Riscopriamo che essi sono figli di Dio attraverso la fede, che dobbiamo crescere insieme per mezzo del­la speranza, che raggiungeremo l’unione per mezzo della carità.


Capitolo Terzo

 

I QUATTRO VOTI

 

 

 

 

Per rendere il nostro essere figli di Dio qualche cosa di più gioioso e di più facile, Cristo ci diede quattro doni quando abbia­mo fatto la nostra solenne professione da­vanti a lui.

 

Una tale professione non poteva essere fatta se non nel contesto dei doni di cui abbiamo fino ad ora parlato.

 

Tutti questi doni ci liberano per per-metterci di vivere «una vita più abbon­dante ». La nostra professione fu dunque il modo migliore di dichiarare pubblicamen­te che noi accettavamo questa vita in tutta la sua pienezza.

 

So che molti religiosi tendono a guar­dare ai voti in modo restrittivo o negativo. E’ vero che, attraverso i voti, noi facciamo grandi sacrifici, rinunciando a cose mera­vigliose, ma, mi domando, quanti dei nostri Fratelli vedono i voti come un dono che ci comunica « la vita più abbondante », anzi una vita più piena? Quante volte abbiamo constatato in casi di «abbandono» che la unica giustificazione per un atto così grave era di affermare l’impossibilità dell’osser­vanza dei voti.

Quanta povertà si scopre in una simile giustificazione!

 

Non voglio in questa sede soffermarmi in un’analisi dettagliata dei nostri voti, ri­mandandola ad altre propizie circostanze: voglio solo dire che pensare seriamente ad un Rinnovamento, senza fermarsi a riflet­tere e meditare sui nostri voti, sulle loro fonti ispiratrici ed illuminanti, sarebbe una imperdonabile omissione.

 

 

La povertà

 

La povertà, come dono, controlla la pos­sessività e il desiderio smodato, che sono debolezza e peccato.

 

La povertà come dono apre il nostro cuo­re e la nostra mente all’intero universo di Dio e alla sua presenza all’interno di esso. La povertà aumenta la nostra gioia e ci fa sco­prire Dio nell’universo materiale. Ci rende più sensibili alla bontà e alla bellezza del­l’universo stesso, e più desiderosi di abbrac­ciarlo.

 

Il religioso votato alla povertà non ha paura del desiderio sfrenato e della posses­sività, né guarda al mondo materiale con disprezzo.

 

 

La castità

 

La castità, come dono, controlla la no­stra ingordigia e la nostra lussuria che pure sono debolezza e peccato.

 

La castità espande i nostri cuori e le nostre menti fino ad abbracciare tutto il popolo di Dio.

 

Attraverso la potenza di questo dono amiamo gli altri con maggiore facilità e con gioia più intensa. La castità rende il nostro amore più simile a quello di Cristo, proprio perché introduce in questo nostro amore per gli altri una nota di trascendenza.

 

La castità intensifica le intimità proprie della vita di ogni uomo, le espande fino ad abbracciare tutti i fratelli e tutti coloro che serviamo col nostro lavoro.

 

La nostra castità, come tante altre virtù, ha assunto un aspetto piuttosto restrittivo nel passato: ragione di più per un suo Rin­novamento.

 

 

L’obbedienza

 

L’obbedienza, come dono, controlla la no­stra tendenza a preoccuparci di troppe cose, ignorando «l’unum necessarium». L’obbe­dienza ci rende capaci di accettare la po­tenza liberatrice dell’autorità autentica, aiu­tandoci a realizzare più intensamente la unione con i Fratelli.

 

Per mezzo dell’obbedienza noi non sacri­fichiamo la nostra volontà e la nostra li­bertà! Ciò significherebbe privarci della nostra stessa umanità. E’ la libertà che di­stingue l’uomo dalle bestie, e l’obbedienza vera non ci rende certo simili alle bestie! Es­sendo già figli di Dio, dobbiamo vivere in unione con i nostri Fratelli che pure sono figli di Dio.

 

La nostra obbedienza-dono ci facilita la vita.

 

Tutto il resto è schiavitù e disobbe­dienza.

 

 

L’ospitalità

 

Con l’ospitalità-dono apriamo il nostro cuore a ricevere coloro che si trovano nella necessità e nella malattia. L’ospitalità è un dono ricevuto più che un dono dato. Pochi al mondo sanno scoprire la bontà e la bel­lezza di coloro che all’apparenza sono poco gradevoli o ripugnanti. Attraverso la poten­za di questo dono penetriamo al di là della facciata per intravvedere la ricchezza inte­riore dei bisognosi, la salute spirituale de­gli ammalati, l’unione con Dio mediante gli abbandonati.

 

Attraverso l’ospitalità ci arricchiamo di tutte queste cose e ci sforziamo con la no­stra disponibilità di rendere coloro che ser­viamo consapevoli di essere veramente loro i nostri primi e veri benefattori. Dobbiamo impegnarci a « rinnovare » il nostro Voto di ospitalità per rendere sempre più vivo, sempre più giovane, il nostro Ordine ed il nostro spirito.

 

Evidentemente non escludo che si deb­bano urgentemente e seriamente promuove­re studi e rilievi socio-ecclesiali dell’area in cui realizzeremo la nostra Missione Ospe­daliera ed i principi teologici ispiratori di questa discussione apostolica; ma affinché da questi studi derivino la capacità ed il coraggio di autentici cambiamenti o di nuo­ve proiezioni, è indispensabile che contem­poraneamente a queste ricerche sociologi­che si porti avanti un autentico Rinnova­mento spirituale della nostra Ospitalità.


CONCLUSIONE

 

 

 

 

Confratelli carissimi, avrei tante altre cose da dirvi che mi affiorano alla mente ed al cuore, ma non voglio tediarvi oltre.

 

Non ho la presunzione di aver detto qualcosa di nuovo o di trascendente: spe­ro solo di avere fornito spunti che ritengo di fondamentale importanza per un vero e profondo Rinnovamento del nostro vivere cristiano e religioso.

 

Il mio desiderio è di portare un mode­sto ma sincero e sofferto contributo per­ché i Confratelli tutti capiscano pienamente il valore di una vita religiosa più consa­pevole, in cui sia il male che il bene siano considerati come parte della nostra condi­zione umana, sempre però nella certezza che il bene trionfa sul male, perché è il bene del Figlio di Dio e della presenza dello Spi­rito Santo.

 

Tocca ora a ciascun confratello e a cia­scuna Provincia fare ogni sforzo per con­cretizzare tutte queste cose nella propria vita e nel proprio ambiente. Ho parlato a li­vello di principi fondamentali. Possa da questi principi fondamentali, scorrere la vita e ciascuno di noi fiorire nella pienezza della bontà che gli è propria.

 

Se ognuno di noi riuscirà a rinnovarsi nelle sue radici e nei principi cristiani, allora il nostro Rinnovamento troverà dav­vero la sua sorgente nel fertile terreno del Vangelo, nella vita del nostro santo Fonda­tore e in tutta la ricchezza che vediamo in ciascuno dei nostri Fratelli.

 

Ci benedica Dio, ed il nostro Santo Fon­datore faccia ardere nel nostro cuore quel­la fiamma che consumò il suo vivere umano.

 

 



[1] Seconda lettera ai Corinti 3:2-4.

[2] Vangelo secondo Giovanni 10:10.

[3] Vangelo secondo Matteo 11:30.

[4] Gaudium et Spes, introduzione.

[5] Vangelo secondo Giovanni 17:11, 20.

[6] Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio – Discernimento degli Spiriti

[7] S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae II – II Cap. 71 art. 6.

[8] Lumen Gentium.

[9] Gaudium et Spes Cap. 1, 16.

[10] Ibidem 6.

[11] Teilhard de Chardin: Inno dell’Universo.

[12] Ibidem.

[13] S. Tommaso d’Aquino, op. cit. I-II Cap. 1 art. 4.

[14] Gaudium et Spes Cap. I 12-13.

[15] Ibidem.

[16] Ibidem.

[17] Evangelica Testificatio 5, 12.

[18] Vangelo secondo Giovanni 12:23.

[19] Vangelo secondo Luca 10:41.

[20] Prima lettera ai Corinti 9:12.

[21] Salmo 8:6.

[22] Lettera ai Romano 5:20, 7:7-12.

[23] Vangelo secondo Matteo 12:28.

[24] Prima lettera ai Corinti 12:31.

[25] Vangelo secondo Giovanni 13:15.

[26] Ibidem 15:20.

[27] Ibidem 13:5.

[28] Vangelo secondo Luca 10:38-42.

[29] Ibidem.

[30] Ibidem 12:22-31.

[31] Ibidem 15:4.

[32] Gaudium et Spes Cap. II, 23, 27.

[33] Vangelo secondo matteo 19:29.

[34] S. Tommaso d’Aquino Op. Cit. II – II 162 art. 1.

[35] Romani 7:6.

[36] Vangelo secondo Matteo 23:27.

[37] Vangelo secondo Giovanni 8:32.

[38] Gaudium et Spes Cap. II 23:24.

[39] Vangelo secondo Matteo 5:22.

[40] Genesi 1:26 Libro della Sapienza 2:23.

[41] Ecclesiastico 17:3-10.

[42] Salmo 8:5-8.

[43] Gaudium et Spes I, 12.

[44] Vangelo secondo Matteo 5:15.

[45] Evangelica Testificatio Par. 2 e 13.

 
 

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